I dati choc di uno scandalo  | 
             
            
              
                
                  Corrotti impuniti e felici 
                 
                | 
             
            
              Nell'Italia delle tangenti, in 20 anni solo il 2 per cento ha pagato con   il carcere. In alcune regioni non ci sono state condanne. E oggi nessuno   indaga  | 
             
            
               | 
             
           
            
             C'era una volta la lotta alla corruzione. Lotta dura, simboleggiata da Mani   pulite. Lotta che ha sconvolto l'Italia della politica e dell'impresa nella metà   degli anni Novanta. Memorabile l'immagine di quell'industriale che usciva dal   carcere milanese di San Vittore, borsa Vuitton in alto, simbolo di ricchezza e   del suo potere. Aveva resistito poche ore alle manette. E giù una   confessione-fiume sulle mazzette da lui girate a questo o quell'uomo politico.   Purché si aprissero dietro lui le porte della prigione, in vista del processo.   Ma, dopo le sentenze, quanti corruttori o corrotti hanno veramente pagato?   Quanti gironi infernali hanno dovuto attraversare prima di riavere la libertà   definitiva? La sensazione che pochissimi fossero gli sfortunati era diffusa. Ora   c'è la certezza.  
               
              La legge non è uguale per   tutti 
              Nell'arco di vent'anni, dal 1983 al 2002, compreso quindi il   periodo di Tangentopoli, solo il 2 per cento ha scontato pene in carcere, mentre   il 98 per cento l'ha fatta franca. O perché è scattata la sospensione   condizionale (sotto i due anni) o perché sono state riconosciute misure   alternative (servizi sociali: tra due e tre anni). E soprattutto perchè nell'87   per cento dei casi la sentenza è stata mite: sempre meno di due anni.  
               
            Sono cifre rese pubbliche da una ricerca condotta dall'ex pm Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di Mani pulite, ora   giudice di Cassazione, e Grazia Mannozzi, docente di diritto   penale all'Università dell'Insubria (Como e Varese). Ricerca riversata nel libro   'La corruzione in Italia', editore Laterza, in libreria dal 5 ottobre. Due anni   per un lavoro tutto sui numeri, tratti dal Casellario giudiziale centrale. Una   miniera di dati che inizialmente dovevano dar vita a una smilza analisi   destinata a una rivista specializzata di diritto. Ne è venuto fuori invece un   volume di 373 pagine, ricco di grafici e tabelle. Dentro, un inedito censimento   sulle tangenti 'made in Italy'. Con risultati choc. Ad esempio, solo due   condanne a Reggio Calabria (in vent'anni!). Ancora. Nessuno riesce a immaginare   che la Finlandia, il paese più 'virtuoso' in Europa, secondo le statistiche di   Transparency International, possa registrare condanne per corruzione quasi   uguali a quelle dell'Italia. Che invece, sempre secondo Transparency   International (classifiche elaborate sulla base di indici di 'percezione'), è al   penultimo posto, davanti al fanalino di coda Grecia, la più corrotta. 
            Strano. Forse il Casellario ha dimenticato di censire parte della   documentazione? Difficile, anzi impossibile. La realtà è un'altra. Mentre una   parte della vecchia classe politica della Prima Repubblica, dal Psi di Bettino   Craxi alla Dc di Arnaldo Forlani, cadeva sotto i colpi delle procure più attive   (pochissime. come si vedrà), un'altra parte studiava come creare degli   'anticorpi'. Gli 'anticorpi' sono solo le manovre sfociate nel   cosiddetto 'giusto processo'. Ovvero nelle modifiche di alcune norme   della Costituzione (articolo 111) , e del codice penale. Cardine della riforma:   l'obbligo, per gli imprenditori che hanno versato tangenti, di ripetere in fase   di dibattimento quanto avevano messo a verbale durante la fase delle indagini.   Non è più sufficiente che il pm presenti in aula il testo delle dichiarazioni   rese in precedenza.  
               
              Insomma prima della riforma tutto questo bastava   perché l'imprenditore negoziasse il patteggiamento e potesse abbandonare i   tribunali il più presto possibile. Dopo avrebbe dovuto tornare nelle stesse aule   e rievocare spiacevoli episodi della propria vita, tutti da dimenticare. Ma   quando mai... Di colpo, un nuovo scenario si affaccia nelle corti di giustizia:   chi dovrebbe aprire la bocca additando i corrotti fa invece scena muta. Grazie   al giusto processo e alle sue innovazioni vengono azzerate le prove. Morale:   tante belle assoluzioni. 
               
            E non è tutto. Nella prefazione al libro di   Davigo e Mannozzi, Vittorio Grevi, professore di procedura   penale a Pavia, scrive: "I risultati concreti dell'attività investigativa (...)   sono stati inferiori alle attese, a causa dell'ampiezza della 'cifra grigia' dei   fatti criminosi scoperti e accertati, ma non sanzionati da condanna definitiva,   molto spesso per via della prematura scadenza dei termini di prescrizione". A   proposito di risultati. I due autori bacchettano i corpi di polizia che "tendono   a privilegiare l'attività di sicurezza pubblica rispetto a quella di polizia   giudiziaria", ossia trascurano le indagini delle procure. Per questo annotano:   "Non riteniamo di poter correlare alla (loro) attività la massiccia emersione   della corruzione negli anni '92-94". A buon intenditor... 
            Geopolitica delle mazzette 
              Un'altra delle sorprese che   balzano all'occhio leggendo 'La corruzione in Italia' riguarda la distribuzione   del sistema mazzettaro sul territorio: "Intere aree geografiche del nostro   paese, almeno stando al numero delle condanne per corruzione e concussione   (l'estorsione del pubblico ufficiale, ndr) passate in giudicato, non sembrano   essere state neppure sfiorate dal fenomeno Tangentopoli". Partiamo dai più   bravi. Al primo posto, l'area della Corte d'appello di Milano (882 casi),   seguita da quella di Torino (568), Napoli (538) e Lecce (poco meno di 500).   Stupiscono Genova (137) e, soprattutto, Firenze, "interessata a malapena da Mani   pulite".  
               
            Nel Meridione c'è invece atmosfera da 'grande freddo', con   l'eccezione, come si è visto, di Lecce e Napoli, dove "la macchina giudiziaria   sembra aver funzionato efficacemente". Se a Reggio Calabria, però,   quanto a condanne, c'è il deserto, non meglio se la cavano altri distretti   meridionali. Come L'Aquila, Potenza, Salerno e Campobasso, per nulla   toccati dalle "inchieste per corruzione". Stesso clima dal fronte di altre città   della Sicilia e della Sardegna: Catania, Caltanissetta e Cagliari. Ma come,   tutto lo Stivale è pervaso da un'atmosfera tale da "rovesciare un intero sistema   politico con una risonanza mediatica senza precedenti" e laggiù non succede   nulla? Secco il commento di Davigo-Mannozzi: "La repressione della corruzione in   Italia tra il 1983 e il 2002 è avvenuta a macchia di leopardo". Colpendo solo   alcuni distretti e "lasciando completamente indenni altri". 
            L'omertà criminale 
              Andiamo allora a vedere che cosa succede   nel profondo Sud. Come si spiega la vicenda di Reggio? Non si può certo credere   che quella fosse una zona franca. Tanto più che l'ex sindaco Agatino Licandro,   dimessosi nel '92, quindi nel pieno di Mani pulite, ha raccontato nel libro 'La   città dolente' "i particolari del patto del disonore con nomi, fatti,   circostanze, e citando tutti i documenti necessari per trovare riscontri e   prove". Come mai ci si imbatte in un numero così modesto di fatti di corruzione?   Non solo in Calabria, ovviamente, ma anche nelle altre regioni appena   nominate. 
               
              Cerchiamo allora di capire, dati alla mano, se vi è uno stretto   intreccio tra corruzione e criminalità organizzata. Con una premessa. Quello   della corruzione è un 'mercato illegale', come gli altri tipici mercati   illegali, dal traffico di droga al gioco d'azzardo. Nelle zone ad alta densità   mafiosa è anch'esso sotto il controllo delle singole associazioni espressione   del territorio, vale a dire la 'ndrangheta in Calabria, Cosa nostra in Sicilia e   così via. Pertanto non è un caso se ci sono funzionari pubblici a libro paga   delle organizzazioni. Su questo tema Davigo e Mannozzi sono arrivati alla   seguente conclusione: "La corruzione giunge a conoscenza dell'autorità in misura   più ridotta quando risulta 'gestita' dalla criminalità organizzata con i metodi   della intimidazione e la cultura dell'omertà che le fanno da sfondo e da   collante". Insomma, pochi casi vengono accertati. Rappresentano la punta   dell'iceberg, quella che spunta dall'acqua. Ma il grosso continua a rimanere   sotto, nella montagna sommersa.  
               
              C'era una volta Mani   pulite 
            Dunque, dopo l''euforia' di Mani pulite, mazzette e tangenti   sembrerebbero un retaggio del passato. Invece impazzano, come Transparency   International non si stanca di segnalare ogni anno. Il problema è quali misure   adottare per farle uscire dallo stato di occultamento nel quale nuotano   indisturbate costituendo la 'cifra nera', una "massa di fatti punibili, ma non   scoperti". L'idea di Davigo e Mannozzi è di puntare su un obiettivo concreto:   smascherare la corruzione, scrivono, "incentivando la propensione alla   denuncia". Si tratterebbe di rendere possibile, anche per questo tipo di reato,   la collaborazione, come avviene per la mafia. In cambio: la non punibilità per   chi apre il libro dei suoi ricordi. È un progetto di cui s'era già parlato a un   famoso convegno a Cernobbio, sulle rive del lago di Como. Era il 1994, due anni   dopo la deflagrazione di Mani pulite. Che fine ha fatto quella proposta?   Occultata. Come le tangenti 'made in Italy'.               
            Dieci storie che non fanno pena
            
            
            1. Paolo Berlusconi 
              Tutto per un golf. Nel   curriculum giudiziario del fratello di Silvio Berlusconi sono tanti i processi.   Quello che gli ha valso una condanna a un anno per tangenti riguarda un campo da   golf da realizzare a Tolcinasco, vicino a Milano. Decisione presa dalla   Cassazione nel maggio '98. E ovviamente nessuna pena da scontare in cella. 
              
               2. Mario Chiesa 
              Il 'mariuolo', definizione coniata   da Bettino Craxi, è stato arrestato nel febbraio '92 dando l'avvio a Mani   pulite. Chiesa è stato condannato a 5 anni e 4 mesi per le tangenti pagate da   imprenditori per ottenere lavori al Pio Albergo Trivulzio, storico ospizio dei   milanesi. Ha scontato gran parte della pena ai servizi   sociali.
              
               3. Diego Curtò 
              L'ex presidente vicario del   tribunale Diego Curtò è stato condannato nel '99 dalla Cassazione a 3 anni e 6   mesi. Nell'ambito dell'inchiesta sulla maxitangente Enimont aveva preso, tramite   prestanome, 480 mila franchi svizzeri. Suo compito: nominare custode giudiziario   delle azioni Enimont l'avvocato Vincenzo Palladino, condannato a 3 anni, ma in   seguito salvato dalla Suprema Corte per 'intervenuta   prescrizione'.
              
               4. Francesco De Lorenzo 
              Ex ministro   della Sanità, condannato nel 2001 a 5 anni e 4 mesi dalla Cassazione. Aveva   incassato 9 miliardi di lire dal 1989 al 1992 da industriali farmaceutici.   Arrestato dopo la sentenza definitiva, è stato scarcerato per gravi motivi di   salute e affidato poi ai servizi sociali. Oggi è attivo nel volontariato e nelle   associazioni per la lotta al cancro.
              
               5. Giulio Di   Donato 
              Ex vicesegretario del Psi di Bettino Craxi, è stato   condannato dalla Cassazione a 40 mesi. Era stato accusato di aver ricevuto   tangenti nell'ambito della privatizzazione della nettezza urbana di Napoli.   Percepisce 6.500 euro di pensione come ex deputato ed è in lizza per le primarie   del centrodestra campano.
               
              
              
                
               
              
              
              6. Primo Greganti 
              Il Compagno G che trascinò   il Pci-Pds nella bufera di Mani Pulite è stato condannato per corruzione a 3   anni. La sentenza definitiva riguarda tangenti su appalti in Piemonte. Ma   Greganti, processato anche per illecito finanziamento, non è tornato in cella.   Aveva chiesto formalmente di non beneficiare dell'indulto, ma il provvedimento   non può essere respinto. Oggi continua a fare l'imprenditore di   import-export.
              
               7. Pierfrancesco Pacini   Battaglia
              Banchiere italo-svizzero, è stato il motore per la   creazione di società off shore: gestiva i fondi neri dell'Eni e distribuiva   decine di miliardi di tangenti a Dc e Psi. Condannato nel 2005 a 6 anni: è   finito in cella a 71 anni e dopo un mese ha ottenuto i domiciliari per gravi   motivi di salute. Dopo sei mesi è passato ai servizi sociali come bibliotecario:   vive nella sua tenuta e ha altri processi in corso.
              
               8. Duilio   Poggiolini 
              Ex direttore generale del ministero della Salute, è   stato condannato dalla Suprema Corte nel 2003 a 4 anni e 4 mesi. Aveva ricevuto   soldi dalle imprese farmaceutiche per accelerare la revisione dei prezzi. Ha   scontato la pena tra domiciliari e servizi sociali, infine ha beneficiato   dell'indulto.
              
               9. Cesare Previti 
              Ex ministro, ma   soprattutto braccio destro di Silvio Berlusconi, ha rimediato due condanne   (corruzione di giudici), sancite dalla Cassazione nel maggio 2006 e nel luglio   2007. Nel primo caso a 6 anni (di cui 3 condonati per l'indulto), per   addomesticare una sentenza nel processo Imi Sir. Nel secondo caso a un anno e   mezzo per il Lodo Mondadori. Sconta la pena ai servizi sociali, nel suo attico   romano. 
              
               10. Alberto Teardo 
              Antesignano del sistema   delle tangenti in politica. Ex presidente della Regione Liguria, è stato   arrestato nel 1983 per mazzette chieste a imprese che partecipavano agli   appalti. Condannato in Cassazione a 7 anni e 10 mesi.  
              
            Leo Sisti 
             
             
       
           |