Viaggio nella storia e nell’arte del cunto, sulle tracce 
                    di Don Giovanni   | 
               
               
                Mimmo 
                    Cuticchio e la tempesta del cunto  | 
               
               
                Suo 
                    padre e suo nonno andavano per i paesini della Sicilia a portare 
                    alla gente lo svago dell’opera dei pupi, ora lui rinnova 
                    questa tradizione nei teatri, affiancandola a quella del cunto  | 
               
             
            di Laura Porelli 
             In 
              occasione della tappa romana al teatro Valle del suo “Don 
              Giovanni all’opera dei pupi”, prima di raggiungere Gorizia 
              e, in primavera, Mosca, abbiamo incontrato Mimmo Cuticchio, ultimo 
              erede di due tradizioni antiche come quella del cunto e del teatro 
              dei pupi. Dichiarata dall’Unesco, il 18 maggio del 2001, “patrimonio 
              immateriale dell’umanità”, l’opera dei 
              pupi si incontra, nella sintesi operata dal maestro siciliano, tra 
              desiderio di innovazione e rispetto della tradizione, con l’antica 
              forma di narrazione che è il cunto. 
               
              Lei è l’ultimo grande rappresentante di una 
              duplice ed antica tradizione: cos’è il cunto, quali 
              sono le sue caratteristiche e come entra in relazione con l’opera 
              dei pupi? 
            Come oggi ci sono la radio e la televisione, anticamente 
              c’erano il cunto e il pupo. Il cunto era la radio: si raccontavano 
              storie antiche, soprattutto epico-cavalleresche. Poi si sa i cunti 
              c’erano un po’ in tutta Italia, si facevano nelle case, 
              nei villaggi, nelle taverne, nelle osterie. Ma il cunto che si faceva 
              in Sicilia era fatto di storie epico-cavalleresche. I cuntisti, 
              così si chiamavano nell’Ottocento questi narratori, 
              sarebbero i continuatori di quelli che una volta erano i cantori 
              medievali. Questa cantilena che ancora oggi sopravvive sembra che 
              derivi dalla metrica latina. L’opera dei pupi era invece la 
              televisione: i pupi si vedevano, si muovevano. In comune c’era 
              il fatto che il puparo come il cuntista interpretava tutte le voci 
              e quindi si sdoppiava: anche quello dei pupi era un teatro antico, 
              un teatro…non naturalista. Il pupo non era come la marionetta 
              che è più legata al marionettista ed è una 
              specie di prolungamento delle sue braccia. Il pupo è più 
              distaccato, diciamo è più brechtiano. 
            Il legame con il mestiere del puparo è 
              per lei innanzitutto un legame familiare? 
            Sì, ho avuto la fortuna di nascere in una 
              famiglia di pupari. Mio padre già a partire dal ’43, 
              dopo i bombardamenti avvenuti a Palermo, si spostò nella 
              provincia dove c’erano gli sfollati, le famiglie, gli anziani 
              che avevano lasciato la città distrutta. Ci fu l’emigrazione. 
              Tutti partirono e mio padre che doveva fare? Andarsene e dove? Per 
              seguire chi? Quelli che partivano con la valigia di cartone? E così 
              pensò di rimanere in questi paesini dell’entroterra, 
              dove non esistevano cinema, televisione o altri svaghi. L’unico 
              punto di aggregazione in questi paesi era la parrocchia, le feste 
              religiose, le processioni. Quindi il teatro dei pupi diventava l’unica 
              novità. 
             
              Che rapporto si stabilisce tra pubblico e cuntista?  
             E’ 
              una specie di telefono senza fili, una comunicazione antica che 
              oggi noi con i mezzi moderni che abbiamo non riusciamo più 
              a concepire con facilità. C’è una storia che 
              racconti che è il significato e il modo in cui usi la parola 
              che è il significante. Il suono diventa musica e la musica 
              è quella che va ed emoziona l’ascoltatore attraverso 
              le cose che dice e come le dice. Quindi il cunto è ancora 
              una forza della natura. E’ un mezzo di comunicazione antico, 
              tanto antico che alcuni studiosi addirittura lo fanno risalire agli 
              aedi greci, e chissà quanto ancora potremmo risalire indietro. 
              C’è da dire che l’unica cosa che nonostante tutto 
              non è mai stata sconfitta dai mezzi moderni, da quando l’uomo 
              ha imparato a comunicare, è l’uso creativo della parola. 
              La memoria assieme alla voglia di rimandare ai posteri storie già 
              sentite magari reinventate è tutto questo che dà la 
              forza al cunto, al cuntista che è il corpo sonoro di questo 
              mezzo antico e al fruitore che è il pubblico che attraverso 
              il suono della voce e il significato delle parole sviluppa un immaginario 
              nella sua mente: è quel “miracolo” che oggi purtroppo 
              i mezzi moderni non lasciano più realizzare. Tutto quello 
              che noi oggi vediamo, televisione, cinema, è già tutto 
              fatto e preconfezionato da qualche genio o da qualche demente che 
              ce lo propina. Mentre queste narrazioni ancora vibrano dentro perché 
              si fanno al momento, non sono a memoria. Le parole escono dalla 
              testa e passano dal cuore attraverso il sangue, le vene, i nervi 
              e tutto questo nostro corpo e quindi vanno a toccare dei punti dell’ascoltatore, 
              provocando questa trasfusione di emozioni che fa arrivare l’emozione 
              direttamente al cuore e alla mente di chi ascolta.  
            La trasmissione della materia epico-cavalleresca, 
              che costituisce il nucleo dei contenuti tramandati attraverso il 
              cunto e l’opera dei pupi, è avvenuta solo oralmente? 
              Non esistono testi scritti? 
             Fino 
              alla prima metà dell’Ottocento era tutto tramandato 
              oralmente, poi nel 1858 Giusto Lo Dico, un maestro elementare appassionato 
              di storia e letteratura cavalleresca, seguì tutti i pupari 
              e i contastorie e cominciò a scrivere delle dispense che 
              uscivano una ogni quindici giorni per due anni, che chiamò 
              “storie dei paladini di Francia”. A questo punto, nella 
              seconda metà dell’Ottocento, ci fu una discussione 
              fra gli studiosi Giuseppe Pitré e Pio Rajna, in cui uno sosteneva 
              che se si fossero scritti dei libri sulle storie che raccontavano 
              i cuntisti forse i cuntisti stessi e i loro figli e nipoti avrebbero 
              cominciato a leggere o farsi leggere queste storie rischiando di 
              perdere la capacità della memoria orale, e in cui l’altro 
              ribatteva che seppur esistesse questo rischio, d’altra parte 
              c’era la necessità di far rimanere almeno delle testimonianze, 
              la cui perdita sarebbe stata di certo la cosa più grave. 
              A distanza di oltre centocinquanta anni posso dire che avevano ragione 
              tutti e due: è importante una conservazione della capacità 
              di trasmettere oralmente il sapere, ma è anche importante 
              che ci siano i libri e che si scriva e si registri la storia. Io 
              per quanto riguarda i miei testi classici, cioè quelli dei 
              paladini, cerco di evitare di leggere libri sul settore perché 
              potrebbero andare a contaminare quello che è il cunto puro, 
              antico ancora ricco delle frasi arcaiche che io sentivo “fare” 
              a mio padre o a Peppino Celano, che era il mio maestro cuntista, 
              che sentivo “fare” ad altri cuntisti quando ero bambino, 
              quelle cerco di ricordarmele. Anche le cose che invento io a mano 
              a mano nell’ambito del racconto fanno parte di quel linguaggio. 
              Poi quando faccio i miei cunti a parte, quelli nuovi, leggo i testi 
              e me li studio, ma in fondo lavoro sempre nello stesso modo: metto 
              tutti i numeri in un bussolotto, non imparo tutto a memoria. So 
              che ho i numeri da 1 a 90, e quindi mi piace, ogni volta che racconto, 
              prendere un numero e partire da quel numero perché io so 
              che posso raccontare fino a 90 numeri, però decido al momento 
              da dove partire. Questo vuol dire che io conosco la storia dei paladini, 
              decido al momento quale episodio voglio raccontare, quale pezzo 
              di storia voglio fare, e me la invento al momento, pur conoscendo 
              la storia io la racconto come se la stessi creando in quel momento. 
               
              Parliamo dello spettacolo che lei sta proponendo in questi giorni 
              al teatro Valle di Roma, del “Don Giovanni all’opera 
              dei pupi”, di questo connubio, che lei ha già sperimentato 
              in passato fra opera lirica e opera dei pupi. Come nasce questo 
              incontro? 
             Diciamo 
              che ormai da tanti anni lavoro per far le riduzioni delle opere 
              liriche per far sì che i giovani si appassionino e poi siano 
              stimolati ad andare a vedere la lirica oppure ad ascoltarla sui 
              cd. Questo “Don Giovanni” è particolare in quanto 
              oltre a congiungere opera dei pupi e opera lirica, inserisce due 
              elementi nuovi che sono il cunto e la farsa. La farsa ormai nell’opera 
              dei pupi non si faceva più da oltre quarant’anni. Io 
              da bambino la vedevo fare a mio padre: erano delle brevi rappresentazioni, 
              che potevano durare dai cinque ai quindici, massimo venti minuti 
              e si facevano al termine di uno spettacolo particolarmente drammatico 
              per spezzare un po’ questa drammaticità e far andar 
              via la gente con il sorriso sulle labbra. Si tenevano una volta 
              o due alla settimana, il giovedì e la domenica. Di tutte 
              queste farse io ne ho a mente almeno una ventina, non sono scritte, 
              quindi non esistono sulla carta. Soprattutto ricordo tutti i caratteri 
              dei personaggi, meno noti di quelli della Commedia dell’Arte, 
              ma famosi da noi in Sicilia, specialmente nell’ultimo trentennio 
              del Settecento, quando operavano nel piano della Marina, nella zona 
              che oggi si chiama Foro italico, vicino a piazza della Marina, degli 
              scaricatori di sabbia, che si chiamavano vastasi perché trasportavano 
              la sabbia dentro delle vaste, cioè delle ceste. Questi facchini 
              avevano costruito dei casotti, detti appunto casotti di li vastasi. 
              I casotti erano delle baracche, dentro le baracche c’erano 
              le panche e il palcoscenico e questo popolo di lavoratori di porto, 
              nei fine settimana al piano della Marina, andava a fare queste commedie, 
              dove si mettevano in evidenza il malgoverno, le cose che non andavano. 
              Siamo nel periodo borbonico e dei sistemi feudali: il popolo non 
              si poteva ribellare. Nella farsa, infatti, spettacolo fatto anche 
              da attori oltre che da pupi, gli attori si limitavano alla burla, 
              e lasciavano parlare i pupi quando si doveva dire qualcosa di particolare 
              o di pericoloso. I pupi potevano dire ciò che l’uomo 
              non poteva dire. Anche se c’erano le guardie presenti, queste 
              ridevano perché erano i pupi a parlare. 
            Torniamo al “Don Giovanni”… 
            Ho preso i personaggi che mi ricordo da bambino 
              mio padre metteva in scena e li ho messi nel mio “Don Giovanni” 
              come pubblico che aspetta il cunto della storia dei paladini che 
              ogni giorno mastro Ramunnu va a raccontare in un quartiere antico 
              di Palermo. In quel momento arriva Leporello da Napoli con Tistuzza, 
              che è un altro pupo di farsa, in particolare è il 
              napoletano che di solito prende le bastonate, e Leporello racconta 
              ai palermitani che lui è nato a Palermo, che da bambino se 
              ne era andato con il nobile conte Don Giovanni, che aveva fatto 
              fortuna in Spagna e che però adesso il suo padrone era andato 
              all’inferno, racconta che lui stesso l’aveva visto trascinar 
              via da diavoli e dalla statua del commendatore da lui ucciso. Se 
              ne era tornato a casa, quindi, Leporello e stimolato dagli spettatori 
              riporta a mastro Ramunnu la storia di Don Giovanni, che egli a sua 
              volta racconta in dialetto ai palermitani. Quindi c’è 
              la farsa, l’opera dei pupi, l’opera lirica e il cunto. 
             
            E’ nato ora da una collaborazione 
              tra l’Accademia nazionale d’Arte drammatica “Silvio 
              D’Amico” e l’associazione “Figli d’arte 
              Cuticchio”, un corso di specializzazione in “opera dei 
              pupi e cunto”: cosa pretende Mimmo Cuticchio, che ha imparato 
              il mestiere dell’opra e del cunto nel corso di tutta una vita, 
              dai suoi allievi? Come ci si può avvicinare ad una tradizione 
              così affascinante ma nello stesso tempo così difficile 
              da possedere?  
             Io 
              spero che attraverso il mio lavoro qualcuno cambi mestiere, cioè 
              capisca che il teatro non si può fare come passatempo o come 
              hobby. Certo si può fare del teatro amatoriale, ma è 
              un’altra cosa. Se un giovane vuole entrare nel mondo del teatro 
              vero, deve cominciare a capire che quello che è successo 
              negli ultimi quarant’anni in Italia è un disastro per 
              il teatro, perché si parla di burocrazia, di soldi, di contributi, 
              di tasse, di siae, insomma di tutta una situazione che ha portato 
              a degenerare la vera arte del lavoratore dello spettacolo. Io quando 
              ero bambino al mattino mi alzavo con i miei fratelli e mio padre 
              ci diceva: “ve la siete fatta la croce? Bene, ognuno di voi 
              vada a prendersi un pupo. Smontatelo e dividetevi il lavoro: chi 
              gli pulisce l’armatura, chi gli ritocca la testa, chi cuce 
              i vestiti…”. Si lavorava dalla mattina alla sera. Io 
              non sono dell’Ottocento, io sono nato alla metà del 
              Novecento, eppure fin da bambino, a me come ai miei fratelli e sorelle, 
              mio padre cominciò ad insegnare a raddrizzare i chiodi nell’incudine. 
              I chiodi che si toglievano non si buttavano, si dovevano riutilizzare 
              quando si montava un altro palcoscenico. Il legno stesso si segava 
              fino all’ultimo tassello e non si buttava mai. Il legno, il 
              ferro erano preziosi. Oggi io vedo scenografie intere buttate. Prima 
              vengono conservate in grandi magazzini, ma poi quando si accumula 
              tanto materiale, le cose vengono distrutte. Non possono neanche 
              essere regalate, devono essere distrutte. Allora io che cosa dico 
              ai giovani che vengono con me? Il teatro è un’altra 
              cosa rispetto a quello che vedete adesso. Bisogna trovare un tempo 
              altro. Oggi non ci siete più abituati. Quando rientrate a 
              casa o da qualunque altra parte avete in testa i telefonini e tutti 
              i problemi che vi portate dietro dalla mattina alla sera con la 
              macchina, con il motorino o con la multa. Il teatro deve essere 
              un luogo di culto come per il prete la chiesa o per i pellegrini 
              il santuario dove si recano a pregare. Il teatro è una scelta 
              non deve essere un obbligo o un dovere: è una scelta di vita. 
              Bisogna togliere via tutti questi vizi. Io ho il telefonino, il 
              computer, il fax e tutto quello che ha inventato la tecnologia moderna, 
              ma non me li porto sempre dietro, in maniera stressante. Quando 
              io entro in teatro lascio tutto, chiudo con tutto e cerco quel tempo 
              altro, che fa stare in armonia corpo e spirito. E’ attraverso 
              il benessere di corpo e spirito che si arriva alla poesia, a fare 
              un teatro di poesia, che poi è cercare di migliorare quello 
              che già si fa, perché io sono figlio d’arte 
              e non voglio ripetere quello facevano mio padre o mio nonno perché 
              i tempi sono cambiati, né voglio ripetere quello che faccio 
              io. Ho bisogno continuamente, come fa Don Giovanni con le donne, 
              di rinnovarmi e cambiare spettacolo.  
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