di Fabrizio Gatti
La tratta di lavoratori in nero diventi reato. Perché il fenomeno è molto grave. E ad alto rischio di criminalità organizzata. Parla il vicecapo della polizia
colloquio con Alessandro Pansa
Il caporalato deve diventare reato. Un crimine da punire con pesanti sanzioni per i caporali e gli imprenditori che si servono di loro. Dall'arresto fino alla perdita di benefici fiscali, sovvenzioni comunitarie e appalti pubblici per le imprese complici. È uno dei suggerimenti del gruppo interministeriale voluto dal ministro dell'Interno, Giuliano Amato, dopo l'inchiesta pubblicata da 'L'espresso' sugli schiavi nell'agricoltura in Puglia.
L'indagine, che il Viminale ha affidatato al prefetto Alessandro Pansa, vicecapo della polizia e tra i massimi esperti di immigrazione in Europa, è durata un mese. I risultati, che saranno ora valutati dal governo, rivelano le dimensioni dell'Italia sommersa che fa affari con lo sfruttamento degli immigrati e l'economia esentasse.

Prefetto Pansa, dove è più diffuso lo sfruttamento del lavoro nero?
"Dipende dai settori. Per l'agricoltura le regioni sono Campania, Puglia, parte di Basilicata e Calabria, Sicilia, il sud Pontino. Un po' meno in Toscana. Per l'edilizia, le grandi aree metropolitane. Soprattutto Piemonte e Lombardia, Campania e Lazio. Abbiamo anche individuato aree più piccole nelle quali c'è uno sfruttamento forte nel settore della collaborazione domestica: Friuli Venezia Giulia, Veneto, Umbria e Sicilia. Per l'allevamento del bestiame, soprattutto Sardegna e Sicilia. E per le manifatture, il fenomeno si localizza moltissimo in Campania, Puglia, Toscana, Lombardia, un po' in Emilia Romagna e Piemonte".

In questa Italia senza scrupoli non c'è nulla di positivo da segnalare?
"Il Trentino, un modello che dovremmo studiare meglio. Perché la percentuale di lavoratori in nero in Trentino per la raccolta di mele è bassissima. E lì gli stranieri hanno anche il permesso di soggiorno".

Quanti sono gli immigrati vittime dello sfruttamento in Italia?
"È un numero oscuro. Ma sono prevalentemente stranieri che vengono dall'Europa dell'Est e, in percentuale molto più bassa, nord-africani, africani e orientali. Nei controlli fatti però abbiamo visto che una cifra tra il 60 e il 70 per cento dei lavoratori stranieri in nero ha il permesso di soggiorno. L'altro 30-40 è completamente clandestino, in assoluto i più vulnerabili".

Questo non significa che il lavoro nero sia accettato dagli stranieri: ci sono migliaia di immigrati costretti a licenziarsi formalmente una volta che hanno ottenuto il permesso di soggiorno, così l'azienda risparmia sui loro contributi.
"Il fenomeno è di tutto il mondo del lavoro. Lasciamo stare gli immigrati e guardiamo cosa sta succedendo agli italiani. È chiaro che là dove il lavoratore ha una posizione ancora più debole, perché straniero o clandestino, il sistema di sfruttamento è peggiore".

Un sistema che funziona grazie alla mediazione del caporalato.
"Il fenomeno del caporalato è un fenomeno ad alto rischio. Cogliamo già in alcuni settori, come le indagini hanno dimostrato, delle forme strutturate di caporalato. Fanno capo soprattutto a stranieri. Gente che si organizza. E gestisce questa massa di lavoro in maniera anche condizionante per il mondo imprenditoriale. I datori di lavoro in nero devono capire che fra poco non avranno più di fronte il caporale, che a sua volta è uno schiavo perché dipende interamente dal datore di lavoro. Fra poco avranno come interlocutore un piccolo boss. Non dimentichiamo le nostre esperienze negli anni '60 con i sorvegliati speciali al Nord. Molti di quei mafiosi gestivano i posti di lavoro degli immigrati meridionali nelle grandi aree industriali. E qualche segnale lo abbiamo colto di recente".

Dove?
"In Campania, nella piana del Sele. I caporali hanno bloccato la raccolta del pomodoro e imposto agli agricoltori prezzi più alti. Il mondo del lavoro che sfrutta gli stranieri in nero deve stare attento perché rischia di diventare esso stesso vittima di questo fenomeno".

Quel mondo del lavoro sommerso intanto è un richiamo per buona parte dell'immigrazione clandestina.
"Questo lo sappiamo. Il traffico dei clandestini è un business indotto. C'è un sacco di gente che chiede il trasporto e i trafficanti si sono organizzati per trasportarli. Alcune organizzazioni, soprattutto cinesi, bengalesi e pachistane hanno modelli di riferimento criminali diversi che hanno importato in Europa. È la schiavitù perdente. Ai loro passeggeri dicono: non puoi pagare il viaggio, vieni in Europa, lavori e produci per un valore pari a quello che mi devi pagare. Fino a quando non pagano, li fanno lavorare come schiavi".
Questo sistema si diffonderà anche in Italia?
"Lo deduciamo dal fatto che negli ultimi tempi c'è stato un aumento notevole dei prezzi che i clandestini pagano. Dalla Libia ma soprattutto dai Paesi d'origine. Abbiamo già qualche esempio sudanese: per arrivare al Mediterraneo i prezzi sono saliti da mille a tremila dollari. Ma ce li immaginamo questi poveri sudanesi con 3, 4, 5 mila dollari? Il rischio è che quel costo sia in buona parte un debito. Ed è un debito che comporta schiavismo. Di fronte a questo fenomeno bisogna intervenire".

Come è successo a Foggia, la legge attuale però non tutela le vittime di caporali e imprenditori.
"Sulle misure normative abbiamo verificato qualche carenza. C'è la legge Biagi che sanziona l'intermediazione di lavoro non autorizzata e il datore di lavoro che occupa il personale in nero. Sono sanzioni amministrative non eccessive. Poi per ottenere un'altra sanzione dobbiamo arrivare agli articoli 600, 601, 602 del codice penale. Cioè la riduzione in schiavitù e la tratta di esseri umani. Il fenomeno del caporalato si va a collocare proprio in mezzo a questi due estremi. Questo vuoto va coperto facendo diventare il comportamento del caporale una condotta sanzionata dalla legge. Anche il datore di lavoro deve essere sanzionato. Ma a questo punto ci dobbiamo porre il problema delle vittime".

Nel governo c'è chi vorrebbe estendere il diritto al permesso di soggiorno a tutti gli stranieri sfruttati nel lavoro nero.
"L'immigrato sfruttato dal caporale deve ottenere un permesso di soggiorno temporaneo. Ma dobbiamo stare attenti, nel tutelare la posizione del lavoratore in nero, a non dare la possibilità ai trafficanti di sfruttare questa norma. Il ministro Amato l'ha detto chiaramente: facciamo quello che dobbiamo fare, ma cerchiamo di non dare un vantaggio ai criminali. Ed è proprio questo il pericolo: dobbiamo stare attenti che organizzazioni che fanno il trasporto, che possono gestire il lavoratore in nero, poi non gestiscano anche la sua regolarizzazione. Perché altrimenti i trafficanti cominciano a vendere il pacchetto trasporto, lavoro nero, emersione dal lavoro nero, tutto compreso. Cioè vendono al clandestino un permesso di soggiorno partendo dall'origine. Bisogna stare attenti a non creare un nuovo business".

Come farete?
"L'ipotesi che abbiamo affacciato nel gruppo di studio è questa: riteniamo che il lavoratore in nero possa usufruire di una normativa simile all'articolo 18 della Bossi-Fini che già tutela le vittime della prostituzione e del traffico di esseri umani. Se noi individuiamo il caporalato come reato a sé, tutte le persone sfruttate dal caporale sono vittime di un reato specifico e possono ottenere un permesso di soggiorno temporaneo. Ma il permesso va collegato a una condizione oggettiva di sfruttamento prevista come reato. Solo così possiamo indagare e sventare eventuali manovre organizzative decise a monte dai trafficanti. Un altro aspetto riguarda i datori di lavoro".

Quale?
"Chi si avvale di caporali e di lavoratori in nero deve perdere tutti i benefici fiscali, le prebende, tutti i vantaggi e i finanziamenti che gli possono venire a livello comunitario, nazionale o locale. Se uno ha preso un appalto pubblico, lo deve perdere. Per queste regole non c'è neanche bisogno di fare una legge. Potrebbero essere inserite immediatamente nei contratti".