di Alessandra Mammì
Reality copiati male dagli Usa. Fiction stile anni Sessanta. Informazione a tutto gossip. La diagnosi impietosa dell'ex direttore di RaiDue
colloquio con Carlo Freccero
Piero Chiambretti e Carlo Freccero
I reality che impazzano in tv? Peggio di quelli americani a cui pure si ispirano. Le fiction sempre più invadenti? Ferme a modelli degli anni Sessanta. Le inchieste? Cancellate da cinque anni di censura. Non usa la clemenza Carlo Freccero, guru riconosciuto della televisione (e non solo italiana), lasciato in panchina dalla Rai targata Berlusconi o, come dice lui, "ex direttore in attesa di collocazione dall'aprile 2002". Eppure, secondo lui, moriremo teledipendenti: la tv generalista rimane centrale ed essenziale, indispensabile strumento di potere e di creazione di consenso.

Trionfo del trash, invecchiamento degli spettatori, formule abusate. L'aria che tira, in campo televisivo, è tutt'altro che positiva. E per questa ripresa di stagione la risposta è una proliferazioni di reality, pacchi e affini. È la tv d'autunno o, per dirla alla Marzullo, l'autunno della tv?
"Quale autunno, non vedo nessun autunno degli ascolti. La tv generalista quest'anno ha saputo calvalcare due eventi straordinari. La grande soap opera delle elezioni politiche che sono partite a gennaio e finite a maggio, poi, subito dopo, i mondiali di calcio".

Ma non si è trattato di eventi prodotti dalla tv.
"No, ma la televisione li raddoppia e li potenzia. Li fa diventare lo scheletro della sua programmazione. Anzi la ragione stessa della sua esistenza. Perché in una società mediatica si può parlare solo di qualcosa che può essere condiviso e la tv generalista è il luogo della condivisione, l'unica che aggrega e permette di essere sintonizzati sull'evento".

E in questo lei non vede differenza fra Rai e Mediaset?
"La Rai è privilegiata rispetto a una tv commerciale, perché l'evento di per sé contiene imprevisti e prevede una programmazione anomala. Di conseguenza se ne può avvantaggiare la tv pubblica che non è schiava degli spot, non è obbligata a rispettare schemi pubblicitari prevenduti e non modificabili. Per esempio la morte del papa, è stata gestita quasi esclusivamente dalla Rai, perché non consentiva interruzioni pubblicitarie. Comunque il grande evento per tutte le tv generaliste è l'unico modo di difendersi dall'attacco delle tv a pagamento".

Anche lei crede che le pay tv saranno il futuro della televisione?
"Io no, non ci ho mai creduto. Se rileggiamo 'La rivoluzione digitale' di Nicholas Negroponte, oggi fa sorridere lo scenario che dieci anni fa immaginava un mondo televisivo dove l'offerta sarebbe stata tutta personalizzata. Ma se tutto è personalizzato come si fa a parlarne?".

Quindi la tv con il palinsesto costruito dallo spettatore secondo lei è un mito?
"Oppure - vedi la legge Gasparri - è solo uno schermo che promette di moltiplicare sulla carta pani e pesci per non sacrificare il duopolio Rai-Mediaset e poter mantenere questa anomalia italiana. Perché si sa bene che è la tv generalista a dettare i modelli sociali contemporanei. È qui la cerimonia mediatica che permette di tenere tutto assieme: passare dal pacifismo al militarismo, dal trionfo delle bandiere arcobaleno a quello patriottico del tricolore. Solo la tv generalista crea maggioranza, è la sua funzione primaria e il suo potere".

Ha ancora così tanto potere?
"Forse è un potere fittizio, perché magari quelli reali sono altrove, ma a livello simbolico è lei a dettare i comportamenti. Il nostro problema è che la tv italiana ha una spiccata matrice provinciale. E in questi ultimi cinque anni di cultura di destra è addirittura diventata arcitaliana".

Dove lo vede l'arcitaliano?
"Nel casting dei reality, per esempio. Una declinazione degli ultimi cascami della commedia all'italiana. Se il reality nasce in America come gioco duro sulle psicologie, nella versione italica diventa un gioco di macchiette. Tutti i personaggi che arrivano dalle isole dei famosi sono dei grotteschi sotto-Pierini".

Le fiction invece grondano di buonismo e di eroi della porta accanto, santi e grandi personaggi.
"Di fondo è la stessa cosa. Don Matteo, carabinieri, medici in famiglia hanno volutamente strutture narrative elementari: storie che si possono seguire anche con un occhio solo mentre si sta cucinando. Il decadimento qui non è nelle storie che possono essere anche quelle di personaggi edificanti ma nella semplificazione del linguaggio, costruito in maniera elementare per raggiungere un pubblico più vasto possibile: quello che chiamiamo il minimo comun denominatore".
È così elementare il pubblico della tv italiana?
"È quello di un paese che secondo dati Censis ha 17 milioni di abitanti che a stento hanno superato la scuola dell'obbligo. Lo specchio del paese è anche la produzione di fiction di prima generazione, cioè vecchie, superate. Prodotte per esempio da Ettore Bernabei, che è il padre della tv anni Sessanta".

E come sono invece le fiction moderne, quelle della seconda generazione?
"Tutti i serial americani prodotti per le tv a pagamento: da prototipi come 'Sex&the city' a 'Lost' o 'Desperate Housewives'. Qui c'è struttura narrativa e visiva molto complessa che nasce anche dalla necessità del marketing di garantire una ulteriore vita in dvd dopo il passaggio televisivo. Non a caso sono quelle che raccolgono un pubblico più giovane e che nate per le pay tv finiscono per colonizzare la tv generalista".

Ma stiamo parlando però di storie americane prodotte a volte da major hollywoodiane con grossi budget.
"Appunto: mentre in America è il cinema a produrre televisione in Italia è la televisione che produce il cinema avendo come modello la fiction di prima generazione. Un circolo vizioso che deve invertirsi per diventare virtuoso. In più anche le tv a pagamento in Italia preferiscono importare fiction invece che produrne di proprie e quindi non si rinnovano. Ma il punto più doloroso della nostra televisione resta il suo distorto rapporto con la realtà".

In che senso?
"Nella tv esistono due modelli forti di rapporto con la realtà: la tv-verità, per esempio quella alla Santoro, e i reality. Sono all'opposto ma entrambi hanno ancoraggio nella realtà sociale. Ora la tv-verità che è fatta di reportage, che è denuncia dei mali e paradossi della vita associata negli ultimi cinque anni è mancata all'appello".

Diciamo pure censurata.
"Di certo c'è stata una censura, ma anche un'automutilazione. È stata fatta fuori perché ritenuta di sinistra, perché è nata negli anni dell'impegno e cresciuta come sottofondo in quelli di Mani Pulite, ma era un fuori campo ricchissimo per la tv, patrimonio, nutrimento che privilegiava la società rispetto all'individuo. La sua eliminazione è una delle cause dell'invecchiamento della nostra tv non perché manchi una voce di sinistra, ma perché manca uno dei suoi linguaggi fondamentali".

In compenso però sono proliferati i reality.
"Non sono certo un moralista e non mi scandalizzo: se i reality esistono e proliferano è perché esiste l'esigenza. Sono l'espressione del mondo di oggi dominato da un liberalismo che ha nell'individuo il suo centro. La realtà non è più fuori nella società, ma dentro di noi, nel nostro narcisismo, nelle nostre paure, nei sentimenti. Semmai il problema dei reality italiani rispetto a quelli americani è che il posto dell'introspezione è stato occupato da un unico sentimento. L'amore in tutte le sue declinazioni: innamoramento, tradimento, abbandono. Con la conseguenza che tutta l'informazione si è trasformata in gossip".

E in questo scenario lei dove colloca il dibattito politico di talk show come 'Porta a porta'?
"'Porta a porta' è la versione reality della politica. È il trionfo del gossip politico, l'individualizzazione estrema. Ci presenta il politico attraverso il privato della politica e taglia fuori la società".

Lei ha cominciato questa intervista negando la crisi e poi ha dato un quadro sconfortante della tv italiana: non vede nessun segnale di speranza dal nuovo governo?
"Qualche segnale c'è, il ritorno di Michele Santoro per esempio. Ma non mi sembra che tra la preoccupazioni di questo governo ci sia un nuovo progetto culturale".

Più che autunno allora siamo in inverno.
"Non per colpa della tv. Concordo nel dire che questa televisione è vecchia e mostra tutte le sue rughe ma questo suo autunno così triste da andropausa, somiglia molto a quello dell'intero paese e i motivi non vanno cercati nella tv ma in altre cause che non tocca a me chiarire".