di Enrico Pedemonte
Un museo a Denver nello spirito del West. Un centro commerciale con case per gli anziani. Un villaggio post tsunami. Il padre del nuovo Ground Zero spiega come gli architetti possono migliorare il mondo
colloquio con Daniel Libeskind
Daniel Libeskind (AP)
Dallo studio di Daniel Libeskind, al 19 piano di un grattacielo di Lower Manhattan, Ground Zero appare come un'immensa voragine foderata di cemento. Cinque anni dopo l'attentato dell'11 settembre, non si intravedono neppure i contorni dei quattro grattacieli che dovrebbero sorgere nella grande area dove un tempo spiccavano le due torri. "Certo, l'opinione pubblica è impaziente, ma il numero dei lavoratori nel cantiere aumenta ogni giorno che passa, e ormai sono centinaia", dice l'architetto, sorvolando sulle polemiche che frenano i lavori nel cantiere più discusso del mondo.

Vestito di nero, con gli occhiali a montatura quadrata per i quali va famoso, Libeskind ci riceve nel suo studio che occupa un intero piano e sembra esso stesso un cantiere in evoluzione: i muri tappezzati dalle immagini dei progetti, i tavoli ingombri di modellini tridimensionali e decine di giovani architetti al lavoro.

Libeskind, che ha da poco compiuto sessant'anni, è diventato una delle grandi star dell'architettura mondiale alla fine degli anni Novanta, quando il museo dell'Olocausto a Berlino si impose come una delle opere più innovative e cariche di emozioni dell'architettura contemporanea. Poi, nel 2003, l'architetto vinse il concorso per il master plan di Ground Zero, e da quel momento la sua fama ha continuato a crescere e la lista dei progetti realizzati ad allungarsi. L'ultimo, inaugurato l'8 ottobre, è il Museo d'arte di Denver, un'esplosione di lamiere di titanio che si proiettano verso il cielo, si allungano sopra le strade adiacenti e replicano l'immagine delle Montagne Rocciose in un gioco di specchi. Si tratta di un capolavoro annunciato, destinato ad attrarre nuovi flussi turistici, come accade ormai in tutte le città, da Bilbao a Cincinnati, in cui i nuovi musei d'autore assurgono a icone simbolo dell'arte comtemporanea, in grado di polarizzare l'interesse di milioni di persone e diventare colonne portanti nelle economie locali.

Lei dice spesso che l'architettura è l'arte del raccontare. Che storia racconta il museo di Denver?
"Racconta la storia del West d'America: la gioia, l'esuberanza, lo spirito pionieristico. È ispirato alle Montagne Rocciose, con quelle energie esplosive che si sprigionano dal sottosuolo; e alla luce di Denver, che è assolutamente unica. Il museo vuole collegare la terra al cielo di questa città battezzata 'Mile High City'".

Perché ha usato il titanio?
"Non è solo un materiale attraente, ma anche simbolico delle nuove industrie di Denver, dove hanno sede le più importanti aziende produttrici di titanio".

L'architettura è diventata il motore dello sviluppo economico in molte città. Questo sta cambiando il ruolo dell'architetto?
"Al contrario, lo sta riportando al suo ruolo più tradizionale. Storicamente ci si aspettava che gli architetti costruissero edifici e spazi pubblici sostenibili, in grado di resistere al passare del tempo. Non dovevano essere solo ambienti gradevoli, ma magneti in grado di attrarre attività pubbliche. Certi musei svolgono il ruolo che un tempo avevano le chiese".

Sta pensando al suo Museo dell'Olocausto a Berlino?
"Oggi il Museo di Berlino ha più visitatori del Guggenheim di Bilbao. E dentro non ci sono capolavori in mostra, ma solo frammenti di storia. È importante creare qualcosa che attrae la gente e riesce a farla riflettere sulla storia".

Dopo il museo dell'Olocausto lei si è spostato a New York per il progetto di Ground Zero...
"In realtà mi sono trasferito a Lower Manhattan già prima che il concorso fosse indetto. Volevo stare qui e sono felice di avere disegnato il master plan di Ground Zero. Questo è il mio quartier generale. New York è uno spaccato del mondo. Stando qui riesci a essere ovunque nello stesso momento".

Che cosa prova a guardare Ground Zero da queste finestre?
"Ogni giorno osservo i cambiamenti dall'alto. Gli operai stanno cominciando a lavorare al Memorial, alla Freedom Tower, al Terminal, l'edificio della Deutsche Bank è in demolizione. Ci vorrà tempo per riempire questo immense buco, oltre 20 metri sotto il livello della strada, ma tra qualche anno la gente che verrà qui vedrà i nuovi grattacieli".
Il progetto della Freedom Tower
di David Childs (foto: AP)
Qual è la sua opinione sulla Freedom Tower progettata da David Childs?
"Certo non è più la mia Freedom Tower, ma hanno fatto del loro meglio. Quello che io ho cercato di ottenere, come progettista del master plan, è che resti un edificio simbolico, alto 1776 piedi, con un elemento che ricordi la torcia della Statua della Libertà, con delle piattaforme aperte al pubblico per salir lassù... Ho cercato di imporre queste scelte. Ma naturalmente non si tratta della mia architettura".

Ma a lei piace?
"Ripeto: hanno fatto del loro meglio tenendo conto che David Childs è un architetto aziendale noto per il suoi edifici aziendali. E credo che capiscano quanto sia importante questo edificio".

Un critico ha scritto che i suoi edifici sono un esperimento di sociologia e antropologia...
"È assurdo! Il Duomo di Firenze o i magnifici edifici del Rinascimento erano forse esperimenti sociologici? Macché. Erano creazioni. L'architettura è un'arte civica che deve aprire nuovi orizzonti. È sempre stato così. Anche la costruzione più banale, magari con una semplice facciata di vetro, ha la sua storia da raccontare. In realtà la storia che ti racconta è che non ha niente da dirti e te lo dice in faccia (dice esplodendo in una risata, ndr). È come una commedia di Beckett".

Lei dice spesso che l'architettura è sempre stata dei ricchi. Come si fa a restituirla alla comunità?
"L'architettura è l'arte pubblica per antonomasia. Anche quando progetti per un privato dai comunque un contributo alla città nel suo insieme: la forma dell'edificio, lo skyline, il modo in cui l'edificio parla alla città, gli spazi collettivi. Quando mi occupo di uno shopping center so che ci sono cose legate all'attività economica del centro che non possono essere modificate. Allora mi concentro sugli spazi pubblici dove la gente può passare il tempo a incontrare gli amici e a prendere un caffè".

Per esempio ha chiesto che nel più grande shopping center in Germania ci fossero appartamenti per gli anziani...
"Uno shopping center è una macchina progettata per vendere. Ma io ho suggerito di inserirci un centro per il benessere, piscine, servizi pubblici, un convention center. In modo che al suo interno possa svilupparsi la diversità che deve esistere in un'area urbana".

Ha anche progettato un grattacielo a Toronto e ha chiesto di assegnare appartamenti agli artisti. Come si fa a integrare la Bohème in un grattacielo?
"Si può. Un grattacielo può risolvere molti problemi ecologici. Se in una città si fa crescere la densità abitativa si può risparmiare energia perché la gente usa meno l'auto, va a piedi. Bisogna pensare oltre la scatola dell'edificio, alle interazioni con le strade. Magari destinando grandi spazi interni ed esterni agli artisti e alle attività culturali".

Lei sta anche progettando una torre a New Orleans, dove è in corso un dibattito molto acceso sulla ricostruzione.
"Ci si chiede se la città sia destinata a scomparire o se sia possibile riportarla alla vita aumentando la densità abitativa in certe aree. Magari costruendo edifici più alti. Il progetto di cui mi sto occupando è vicino all'acqua, e dovrà essere molto resistente, tenendo conto delle condizioni atmosferiche a cui può essere sottoposto. Bisogna reinventare una New Orleans moderna, che possa resistere alla forza degli uragani e a un'inondazione, ma senza nostalgie verso il passato".

E gli amministratori di New Orleans sono d'accordo?
"Certo. Stiamo cercando di incorporare nel nostro progetto la qualità della vita di New Orleans, che è una città speciale con molte influenze francesi, piena di verande. Non vedo perché non si possano conservare certe qualità costruendo edifici più alti e aumentando la densità degli abitanti".

Lei sta costruendo un po' ovunque nel mondo, anche nello Sri Lanka.
"Quella è una forma di volontariato. Cerchiamo di fare risorgere comunità devastate dallo tsunami. Passiamo parecchio tempo con gli abitanti del posto. Ci spiegano come vivono, come vorrebbero i nuovi villaggi e noi incorporiamo nel progetto un po' della nostra creatività. I progetti devono essere collegati alla cultura locale".
Ma rifiuta di lavorare in Cina. Perché?
"In realtà sto lavorando a Hong Kong, con qualche esitazione. Sarò stato invitato cinquanta volte, ma non mi sento a mio agio. È un problema personale. Sono cresciuto nella Polonia comunista e non riesco a lavorare in quell'atmosfera".

Ma se l'architettura è comunicazione, come lei ripete, non potrebbe servire a comunicare anche la cultura della libertà?
"Certo, ma quando mi chiedono di costruire una torre su un pezzo di terra mi domando: che ne sarà della gente che ci ha abitato fino a oggi? Quali sono i processi sociali che ci è negato vedere? La democrazia non è una parola vuota, ma un sistema complesso che crea trasparenza. L'architettura è ben di più che avere un pezzo di terra su cui costruire un bell'oggetto estetico. Prendiamo le Piramidi: sicuro, sono un'architettura che fa impressione, ma non vorrei costruire qualcosa in quel modo, usando gli schiavi. Questa è la ragione per cui io difendo il mio master plan di Ground Zero contro quelli secondo cui 'la democrazia crea mediocrità'. Alla fine del complesso processo democratico in corso, a Ground Zero sorgerà qualcosa che varrà la pena di vedere".