di Gigi Riva da Gaza
Un governo di unità nazionale. Un accordo da trovare entro tre settimane. Tra Hamas e Fatah è l'ultima partita. E i palestinesi si contano. Tra falchi e colombe
C'è un segreto fra queste mura bianche e verde pastello, dietro le vetrate che terminano ad arco irregolare, sintesi di citazioni tra il moderno e l'architettura islamica? Dentro, nelle aule ordinate dove si studiano soprattutto materie scientifiche, è racchiusa la formula per la creazione della classe dirigente di una materia assai meno esatta come la politica? Il sospetto che il genius loci dell'Università islamica di Gaza sia completamente coinvolto nelle umane vicende di potere si rafforza se una fetta consistente del corpo docente si è trasferita nel governo dell'Autorità nazionale (premier Ismail Haniyeh compreso); e quando se ne andrà, per far posto al nuovo esecutivo di unità nazionale, farà staffetta con altri colleghi prestigiosi e onusti di gloria accademica. A cominciare dal più onusto di tutti, l'ex presidente dell'ateneo Mohammed Shabir, 60 anni, da uno in pensione, indicato come futuro primo ministro. A differenza di Haniyeh, già suo sottoposto, non è attivista di Hamas, solo simpatizzante del movimento, e con una moglie che si fregia dei galloni di viceministro agli Affari femminili.

La passione per la cosa pubblica, il fervore addirittura, discende da professori ad allievi come le nozioni di microbiologia (materia per la quale Shabir ha ottenuto un dottorato in Virginia). Basta osservare il coinvolgimento mistico con cui una studentessa, velo bianco che lascia intravedere solo gli occhi neri, soffia in un microfono il suo pensiero sull'ennesimo massacro di Beit Hanoun, 8 novembre scorso, 19 civili uccisi, tutti della stessa famiglia. La voce è un crescendo, le accuse contro il nemico sionista implacabili e se gli astanti, qualche centinaio nel largo prato, non applaudono è perché non deve essere costume da queste parti. Però si uniscono al coro quando la ragazza intona un canto patriottico in memoria dei martiri. Ogni giorno c'è un'adunata con una piccola cerimonia per non dimenticare. Poi gli studenti si spargono tra le classi e solo chi non ha obblighi si avvia sulla strada del mare, nel tiepido novembre mediterraneo. Haya Salameh, 21 anni, la pasionaria del megafono, per oggi ha finito e le resta l'incombenza della spesa nel suk, perché né la madre affaccendata coi fratelli minori, né il padre invalido, possono affrontare con le borse gli otto piani di scale quando, e succede spesso, l'elettricità non muove l'ascensore: effetto del bombardamento della centrale colpita a inizio crisi (fine giugno) e ancora in riparazione. Al mercato la merce abbonda, ma non è una sorpresa. Da tre mesi e mezzo è così. L'assedio che si stringe, il valico commerciale di Karni che si chiude, la penuria di alimentari che fa gridare al rischio catastrofe e poi una strage di civili, Israele che apre un'inchiesta e allenta la morsa, i tir affluiscono e, fatti i paragoni, si naviga nell'abbondanza. "Il costo del nostro pranzo è un massacro", conclude sconsolato il pensionato Abu Mahdi davanti a un chilo di pomodori. E la summa suonerebbe amara saggezza filosofica se un vicino, chiamato con reverenza sheik Hamzh, non riportasse l'analisi su un terreno molto più pratico: "Il costo è il costo. Abbiamo il cibo, ma presto non avremo i soldi per comprarlo".

Il suk è il suk. Per quanto vociante ha una sua metrica, un suo ordine nel caos. Nessun ordine, solo caos, invece, nel traffico tumultuoso di auto e carretti trainati da asini che reclamano, tutti assieme, la precedenza. Fanno fatica, a farsi largo, persino le vetture con sirena, che accompagnano i tanti vip a questo o quel summit. Sheik Hamzh accompagna l'ululato con un gesto della mano fra la stizza e la speranza: "Si mettessero finalmente d'accordo, almeno". Si sa chi sono quelli delle macchine, uomini di Hamas, uomini di Fatah, mediatori e facilitatori a Gaza convenuti per risolvere il rebus del nuovo governo che fatica a nascere ma, inshiallah, dovrebbe essere la volta buona. Perché, a giudicare dal polso della piazza, non ne possono più di questo tergiversare sulla pelle dei poveri cristi. Loro litigano, il tempo passa, la comunità internazionale non scuce un euro per via dell'embargo al governo di Hamas, i dipendenti pubblici non vedono un quattrino e scioperano. I netturbini passano sì e no. Dove non passano, il puzzo nauseabondo si dilata al sole caldo del mezzogiorno per attutirsi un poco quando calano i gradi per l'escursione termica di stagione.
Sull'orlo della rivolta il premier Haniyeh ha ceduto: "Per il bene comune me ne vado". L'emergenza attutisce i rancori personali - oh se ce ne sono - tra religiosi e secolari di Fatah. Fino all'accordo trionfalmente annunciato da Mustafà Barghuti (vedi box a pag. 48) prima di infilarsi nel tunnel del valico di Eretz (ora aperto dalle 7 del mattino alle 9 di sera) e volare a Damasco per convincere il più riottoso di tutti, il leader di Hamas in esilio Khaled Meshal.

Tre settimane di tempo per il nuovo esecutivo che dovrebbe garantire l'Occidente e l'arrivo di fondi. Meshal dirà di sì come perfidamente pronostica Ibrahim Khraishi, viceministro degli Esteri, di Fatah, "per sbarazzarsi di Haniyeh diventato ai suoi occhi troppo potente". Quanto all'esito positivo complessivo "io", aggiunge, "dubito ancora fortemente". Mohammed Shabir, sul cui nome l'uomo della Muqata, il presidente Abu Mazen, ha detto sì, Ibrahim lo conosce bene, da quando era leader degli studenti palestinesi: "Un inconcludente, timoroso, da cui era sempre impossibile avere una risposta chiara. Parlavo con lui, ma poi per stringere mi dovevo rivolgere al defunto sceicco Yassin, il loro leader spirituale, o allo stesso Haniyeh". Insomma, il sospetto che possa trattarsi di un burattino "i cui fili vengono mossi altrove". Allude a quella stessa Università islamica, e torniamo all'inizio, dove l'uomo nuovo Shabir è stato sì il dominus per via del prestigio, ma altri sono sempre stati gli addetti al culto e all'ortodossia politica, dal professor Rantisi (vittima di omicidio mirato), ad Haniyeh, giù giù fino all'attuale ministro delle Telecomunicazioni, il professor Jamal Naji Khudari, eletto deputato con 63.150 voti e pure chiacchierato come possibile premier nel caso fallisse l'operazione Shabir.

Nella sede di Hamas, il deputato Ayman Daraghmeh giura sulla lealtà del movimento "perché il governo di unità nazionale è un'esigenza assoluta". Ma si tiene quel tanto di ambiguità scivolosa sull'altra questione cruciale. L'accordo prevede, implicitamente, il riconoscimento di Israele, visto che si fa cenno, esplicitamente, punto tre di otto, al rispetto di tutti gli accordi siglati dall'Olp, compresi quelli con lo Stato ebraico. Voi dunque lo riconoscerete? Elusivo: "Il problema non è quello, ma il riconoscimento dei nostri diritti". Bene, c'è ancora da lavorare. E se un elemento può indurre a un qualche ottimismo è che la soluzione, stavolta, non sta solo nel circuito perverso dei rapporti tra Hamas e Fatah, ma troppi ci hanno messo la faccia e arrivano da un'area più vasta. La Lega Araba ha deciso, intanto, di sbloccare i fondi all'Autorità palestinese. E il ministro degli Esteri del Qatar, Hamsd bin Passim bin Jabr al Thani, è stato all'origine della mediazione, ancora prima di Barghouti, provando persino a giocare di sponda con gli israeliani con cui un rapporto sebbene acerbo è però stato avviato.

Tre settimane, allora. Per riempire le caselle dei dicasteri, farle combaciare in un mosaico credibile e convincere la comunità internazionale. Shabir ha studiato in America, ok. Agli Esteri ci potrebbe essere Ziad Abu Amar, pure sostenuto da Hamas nelle elezioni di gennaio. Alle Finanze tornerebbe quel Salam Fayyad su cui Washington non ha mai fatto mistero di puntare. Hamas vorrebbe i ministeri del Welfare, Sanita, Istruzione e si capisce bene il perché, da lì passa il consenso. Chiacchiere?

Amad 'Abu Maher' Helles, di Fatah, il nuovo uomo forte del partito che fu di Arafat a Gaza, sostiene (sapendo di mentire?), che di nomi non ne sono stati fatti: "Siamo ai preliminari, alla definizione di quanti posti spettino agli uni e agli altri". Lui è diviso tra gli estenuanti meeting con gli altri e la riorganizzazione della sua formazione che, nella Striscia, è scesa assai bassa nei sondaggi. Il territorio lo ha ripartito in tre aree, ha reclutato giovani per svecchiare la classe dirigente ed eliminare quelli più sospetti di collusione. Che metta tanta energia nel repulisti non è per caso.
Esiste un altro scenario oltre a quello del nuovo governo di unità nazionale. Siamo a fine novembre, lo sforzo è fallito. Il presidente Abu Mazen ne prende atto e, usando un potere che la Costituzione gli attribuisce, dichiara lo stato d'emergenza. Si va in breve (gennaio?) a nuove elezioni, per il presidente e per il Parlamento, e bisogna essere pronti alla sfida.

Gaza oggi è l'epicentro del confronto. A Gaza oggi ci si può muovere e trattare perché le truppe israeliane se ne sono andate con le loro 'Nuvole d'autunno' (nome dell'operazione di inizio novembre). Per questa precaria normalità ritrovata qualcuno ha pagato un prezzo per tutti. È la signora Hayat Athamneh, quella che ha perduto 19 membri della famiglia allargata. Se ne sta seduta, vestita di nero, in mezzo a una strada ancora piena di cocci a Beit Hanoun. Chiede: "Chi mi porta al cimitero?". Quello più vicino era esaurito e alcuni dei suoi li hanno dovuto seppellire nel nuovo camposanto, ancora in costruzione, a ridosso del muro, dove un tempo, prima dei tank c'erano gli ulivi e gli agrumeti.