L'11 aprile fu spedito al ministero a controllare lo spoglio. Oggi Minniti è viceministro e non ha dubbi: 'Voto regolare'. Ma i risultati ufficiali tardano
Marco Minniti
Non ci sono le condizioni per riaprire l'esito delle elezioni, ripete da giorni il vice-ministro dell'Interno Marco Minniti, convinto che sarebbe un autogol per il centrosinistra, vincitore dello scontro elettorale di aprile per soli 24 mila voti. Una voce autorevole: fu lui, il diessino più inserito nell'apparato dello Stato, a piombare alle 2 meno un quarto della notte del 10 aprile nel centro operativo del Viminale per controllare che tutto fosse regolare. Il film di Enrico Deaglio 'Uccidete la democrazia' dedica grande risalto a quella visita irrituale, la prima volta che un esponente dell'opposizione saliva al ministero dell'Interno per svolgere opera di 'vigilanza democratica'.

In quelle ore convulse Minniti stava partecipando alla lunga no stop di La7 sull'altalena elettorale. Durante una pausa pubblicitaria fu raggiunto da una telefonata di via Nazionale. Lo cercavano Piero Fassino e Massimo D'Alema, letteralmente isterici, allarmatissimi. Pesava l'idea di veder sparire una vittoria fino a poche ore prima data per certa da tutti gli exit poll. E c'erano preoccupazioni di ordine pubblico. In piazza Santi Apostoli, tra la folla sotto la sede dell'Ulivo, la parola broglio già circolava: cosa sarebbe successo se Silvio Berlusconi avesse vinto per un pugno di voti?

"Marco, qui le cose non vanno. Qualcuno deve andare al Viminale per capire cosa sta succedendo. Tu sei l'unico di noi che può farlo". Non sfuggiva agli uomini della Quercia l'eccezionalità di quella visita. Ma al Botteghino l'allarme rosso era scattato già da qualche giorno: da quando un misterioso black out aveva mandato in tilt il centralino di raccolta dati che i Ds tradizionalmente allestiscono per le elezioni politiche, un sondaggione fai-da-te, spesso più attendibile delle proiezioni ufficiali. Un guasto tecnico, certo. Ma, curiosamente, il centralino saltò di nuovo, e questa volta durante la sera del 10 aprile. Per qualche tempo anche i Ds restarono al buio, senza i dati telefonati dai militanti nei seggi elettorali. E poi c'era quella dannata lentezza nell'afflusso dei voti ufficiali, soprattutto dalle zone considerate ad alto rischio. Mancavano 130 sezioni dalla provincia di Caserta, dove dieci giorni prima il governo Berlusconi aveva sostituito il prefetto (Maria Elena Stasi al posto di Carlo Schilardi), un giro di poltrone che aveva coinvolto 13 prefetture. Talmente imbarazzante da spingere l'associazione sindacale dei funzionari prefettizi a protestare pubblicamente: "Perché queste nomine alla vigilia delle elezioni?".

Di fronte alla richiesta di Fassino e D'Alema Minniti non fece obiezioni. Pose una singolare condizione: chiese che gli fosse mandata una macchina del partito. "È un atto politico, non posso arrivare a piedi. Non vorrei passare inosservato", spiegò con ironia. Mentre aspettava, chiamò il Viminale per avvisare del suo arrivo. E qui ci fu la prima sorpresa: "Venga pure, onorevole", gli disse un prefetto: "Ma il ministro si scusa, non potrà riceverla. Non è nel suo ufficio". Già: Giuseppe Pisanu era tornato a palazzo Grazioli, casa Berlusconi, per la seconda volta. Così, mentre la berlina della Quercia faceva il suo ingresso al Viminale con Minniti a bordo, Pisanu partecipava all'ennesimo summit dal premier. Una doppia anomalia, mai vista nella storia repubblicana: il ministro in carica fuori palazzo, il ministro-ombra nella sede istituzionale.

Lì per lì non se ne accorse nessuno, né il centrodestra ebbe nulla a che ridire: sarebbe stato un clamoroso autogol. L'uomo del Botteghino si limitò a rifare i conti: sezioni mancanti, voti di scarto. E alle 2 e 40 telefonò a Fassino e D'Alema: "Vi comunico che avete vinto le elezioni". Il presidente dei Ds, come suo solito quando la tensione aumenta, stava giocando al computer. Chiese: "Di quanto?". Minniti rispose: "Meno di 30 mila voti". Allora D'Alema puntò col dito i presenti: "Capito? Abbiamo vinto grazie al voto di tua sorella e di tua zia". Intanto, Fassino aveva chiamato Romano Prodi e si era precipitato in sala stampa a dare l'annuncio che il centrosinistra aveva vinto. Con la voce spezzata, lo sguardo allucinato di chi aveva riconosciuto il suo assassino.
Oggi Minniti siede al Viminale, a pochi passi da Giuliano Amato. Conosce bene la macchina del ministero, sa che il suo difetto è l'eccessiva prudenza, la lentezza, non vede in giro gente che si imbarca in un'avventura come la manipolazione delle elezioni. Quello che successe quella notte lo attribuisce oggi a una catena di errori e di leggerezze: lo spostamento dei prefetti, i continui avanti e indietro di Pisanu da casa Berlusconi. Ma gli uomini dei Ds salvano l'ex ministro: "È una persona perbene. Parlano gli atti ufficiali. Ha preso posizione contro Berlusconi che non voleva riconoscere il risultato. Eppure sarebbe bastata un'esitazione, affermare che serviva un'inchiesta, un'ispezione e tutto sarebbe cambiato". E le schede bianche? E i dati elettorali che a sette mesi di distanza non sono ancora visibili sul sito del ministero? Per Minniti è colpa di un quadro casuale, il generale caos che domina sempre. Spiegazione troppo semplice, certo, happy end. Ma nel film di Deaglio la versione di Minniti non c'è. Anche perché non gli è stata chiesta.