di Roberto Fabbri
Il giorno dopo lo choc del «no» irlandese nel referendum sul Trattato di Lisbona è già tempo di rese dei conti. E nel mirino finisce, a livello comunitario, il commissario europeo Josè Manuel Barroso, e a Dublino il premier Brian Cowen. L’accusa per entrambi è la medesima: non avere comunicato adeguatamente con i cittadini, mancando l’obiettivo di far sentire le istituzioni e i trattati europei come qualcosa di positivo per loro e non invece, come è accaduto in Irlanda e più in generale sta accadendo in Europa, di astruso e inaffidabile.
L’incombente processo politico a Cowen, crocefisso dalla stampa irlandese che lo incolpa di aver pessimamente gestito una campagna elettorale in cui nessuno tranne gli ultranazionalisti dello Sinn Fein si era schierato per il «no», è una questione interna della piccola Repubblica atlantica, che ora teme l’isolamento in Europa. Altra cosa è la partita che vede protagonista, suo malgrado, Barroso. In questo caso il grande accusatore è il presidente francese Nicolas Sarkozy. L’Eliseo ha puntato forte sull’imminente semestre di presidenza di turno che spetta a Parigi e certamente lo scacco irlandese brucia a Sarkozy. Il quale peraltro intende cogliere l’occasione per indebolire Barroso, cui vuole accollare parte della responsabilità del disastro. «Molti europei - ha detto ieri Sarkozy in una conferenza stampa con il presidente degli Stati Uniti George W. Bush al suo fianco - non capiscono il modo in cui costruiamo l’Europa in questo momento. Vedo il “no” irlandese come un appello a fare di più e meglio e a trovare insieme le soluzioni». Altra musica rispetto a quella suonata da Barroso, che ha invece detto di aspettare delle risposte «dal governo irlandese», proprio quello che è stato sconfessato dai suoi stessi elettori.
Sarkozy si rivolge dunque ai cittadini - irlandesi e non solo - e anticipa le linee guida di quello che vuol essere un semestre teso a riavvicinarli agli ideali e alle istituzioni europei. Premettendo che considera comunque «importante che il processo di ratifica del Trattato di Lisbona giunga al suo termine», il presidente francese assicura tra l’altro di voler rendere chiara ai cittadini dell’Ue «una politica europea dell’immigrazione e una risposta europea all’aumento senza fine dei prezzi del petrolio». E conclude dicendo di aver colto il messaggio inviato dagli irlandesi e impietosamente sottolineato ieri dalla stampa di tutto il Continente: «Abbiamo il dovere di essere più efficaci al servizio della vita quotidiana degli europei».
Intanto, le diplomazie sono al lavoro. E nonostante sia evidente che le questioni di peso saranno affrontate dopo il 1° luglio, data in cui l’attuale presidenza di turno slovena passerà le consegne a quella francese, la discussione sul dopo-Dublino è avviata. Domani a Lussemburgo ci sarà l’incontro dei ventisette ministri degli Esteri dell’Unione, con il tema principale obbligato: si parlerà delle possibili vie d’uscita dal disastro del referendum irlandese. Premesso che l’obiettivo comune è quello di continuare il percorso delle ratifiche (Irlanda a parte, sono otto i Paesi che devono ancora farlo per via parlamentare, e tra questi l’Italia), le opzioni sul tavolo sono almeno quattro: far svolgere un nuovo referendum in Irlanda; abbandonare il Trattato di Lisbona, tornando così allo status quo rappresentato da quello di Nizza; rinegoziare il Trattato di Lisbona; puntare alla cosiddetta «Ue a due velocità».
La prima opzione raccoglie al momento i maggiori consensi. Tra l’altro già nel 2002 gli irlandesi furono chiamati a votare una seconda volta sul Trattato di Nizza che avevano respinto. Ma come minimo sarebbe necessario ritoccare il documento “su misura” per l’Irlanda, sempre ammettendo che Dublino sia d’accordo. Il ritorno al Trattato di Nizza piace poco perché costringerebbe l’Unione a rifare i conti con vecchi e seri problemi sulla politica estera, l’allargamento, il funzionamento delle istituzioni e il processo decisionale: un passo indietro, insomma. Rinegoziare il Trattato di Lisbona appare arduo, visto che già rappresenta una versione ritoccata della Costituzione affondata dai referendum del 2005 in Francia e Olanda. L’Ue a due velocità, infine, prevede l’individuazione di un nucleo di Paesi che facciano da guida agli altri: ed è facile immaginare le difficoltà di attuare una simile soluzione senza creare ulteriori lacerazioni.