La sicurezza è diventata un bene primario. Che lo Stato deve garantire
Che cosa dice a un giornalista un rapinatore rumeno, uno di quelli che assaltano le case in Piemonte, alla ricerca dei 'soldi grossi'? Prima di raccontarlo, voglio fare un salto all'indietro nel tempo. Il Piemonte del passato l'ho conosciuto bene: ci sono nato e cresciuto, per poi iniziare il mio apprendistato alla 'Stampa' di Giulio De Benedetti, all'inizio degli anni Sessanta. La prima edizione del giornale, destinata alle altre regioni, chiudeva attorno a mezzanotte. La seconda, quella piemontese, verso l'una. A quel punto, i redattori che non lavoravano per la cronaca cittadina se ne andavano. Dove? Quasi mai a casa, bensì a cena in qualche trattoria aperta per loro. Oppure, d'estate, a zonzo per la città.

Torino dormiva tranquilla. Era iniziata l'immigrazione dall'Italia del sud, braccia per la Fiat, 'la Feroce', che si stava espandendo. Su molti portoni spiccavano cartelli razzisti: 'Non si affitta ai meridionali'. Ma i terroni non facevano paura: a molti davano soltanto fastidio. Potevi attraversare il buio di Torino senza incontrare nessun pericolo. Lavoravano in pace anche le ragazze di vita che aspettavano in regalo la 'Stampa' ancora fresca d'inchiostro.

L'abitudine a tirar tardi era così diffusa che provocò uno scontro a colpi di elzeviro tra due firme illustri del giornale: Paolo Monelli, nottambulo, e Guido Piovene, propenso a coricarsi presto. Il duello andò avanti per qualche numero. Poi De Benedetti, che odiava la monotonia, chiuse la faccenda con una vignetta di Giuseppe Novello. Sotto il titolo 'Il piacere di far tardi la notte', appariva uno spazzino solitario che, con l'aria intristita, scopava le vie deserte di una città tutta a nanna.

Torino, oggi, non è più così. Qualche sera fa, il direttore del 'Tuttosport', Giancarlo Padovan, nel rincasare dal giornale come facevamo noi in tranquillità, è stato pestato e rapinato da due criminali di strada. Qualcuno ha scritto che se l'era cercata, perché non si gira di notte a Torino, per di più da soli. La stessa cosa succede in tante altre città nell'Italia del nord. Ho visto con i miei occhi vie senza un'anima poco dopo le otto di sera. Lo stesso vale per le stazioni ferroviarie, diventate un bivacco di gente che per pochi euro può regalarti una coltellata. Se abiti in una casa isolata, non sei più al sicuro neppure dietro la porta blindata. Ci sono bande pronte a tutto, in Veneto, in Lombardia, in Piemonte, in Emilia. Bande di immigrati dall'Albania, dalla Romania, dalla ex Jugoslavia. E anche qualche banda italiana.

È gente senza pietà, pronta a picchiare, a ferire, a uccidere. Un bravo inviato della 'Stampa', Marco Neirotti, ha intervistato ad Asti un rumeno appena uscito dal carcere, rapinatore di ville e cascine dell'Astigiano. Si è sentito dire, a proposito di una vittima pestata durante un assalto: "Lui non doveva reagire. Nemmeno lo toccavo. Mi dava i soldi e me ne andavo. Se faceva così, non finiva all'ospedale". Il rapinatore cercava 'i soldi grossi', quelli che devono per forza esserci in qualsiasi casa che non sia una topaia: "Ho viaggiato per venire qui in Italia, dove si sta bene, dove state tutti bene. I soldi grossi li tenete nascosti. Io ho bisogno di soldi e loro m'ingannano dicendo che non ci sono".

La sicurezza sta diventando un bene primario, dappertutto. Chi ha denaro, i ricchi, se la procurano da soli. E non piangono, come voleva il manifesto suicida di una sinistra regressista. A piangere sono invece i cittadini qualsiasi che, sempre più spesso, si chiedono: chi ci difende, che cosa fanno il governo e i giudici? A porsi queste domande sono anche tanti elettori di centro-sinistra, incavolati più per la delinquenza impunita che per la legge finanziaria. E angosciati da una sensazione d'insicurezza, di pericolo costante. Ma non si tratta di interessi organizzati. E le loro voci arrivano di rado sui giornali.

Tuttavia, basta viaggiare su un treno, andare in un bar, frequentare un mercato rionale per avvertire quanto sia ormai diffuso il disagio di molti italiani senza potere. Hanno ancora fiducia nella polizia e nei carabinieri. Ma poi lo scoramento diventa profondo. Provo a tradurlo in un giudizio generale: l'Italia è un paese che non conosce più la severità. Non è severo con l'immigrazione clandestina. Non è severo con chi assalta per rapina persone e case. Non è severo con chi stupra le donne. Non è severo con gli studenti violenti in classe, il tanto citato bullismo che, un tempo, si chiamava teppismo. Non è severo neppure con chi va in autostrada a centottanta all'ora.

Ma una nazione che ha dimenticato la severità rischia di gettare nel guardaroba dei cani anche la propria libertà. E può diventare preda del primo leader populista che si proponga come difensore della povera gente oppressa. Contro una partitocrazia superprotetta e ricca di vantaggi. È questo il destino che ci aspetta? Se ci penso, mi sento invadere anch'io dalla paura.