di Enrico Pedemonte
Che fine ha fatto l'American Dream? Il nepotismo dilaga anche negli Usa. Le opportunità non sono più per tutti. Ma per i figli dei ricchi: programmati fin da piccoli a emergere
Daniel Golden, autore di The Price of Admission
Quando Albert Gore III, figlio del candidato presidente alle elezioni del 2000, fece domanda per entrare ad Harvard, non aveva un curriculum entusiasmante. Alla high school aveva preso voti scadenti. E nella prova di accesso all'ateneo bostoniano aveva ottenuto un risultato mediocre. Ma fu ammesso. A quei tempi il padre, lui stesso laureato ad Harvard, era in corsa per la Casa Bianca, così Albert fu preferito a migliaia di candidati con voti molto migliori. E il figlio di Al Gore non è l'unico rampollo dell'America che conta ad avere avuto un trattamento in guanti bianchi nei templi della cultura. William Frist, figlio del congressista Bill, fece domanda per entrare a Princeton nel 2002, quando il padre era leader repubblicano alla Camera. Nella prova di accesso ebbe '5', il voto minimo. Migliaia di candidati che avevano avuto il massimo furono esclusi. Lui passò. Negli anni prima il padre aveva fatto donazioni per milioni di dollari a quell'università.

Daniel Golden, premio Pulitzer e giornalista del 'Wall Street Journal', ha scritto un libro-inchiesta ('The Price of Admission') per raccontare come gli americani 'ricchi e famosi' siano disposti a tutto pur di fare entrare gli eredi, anche quando sono perfetti asini, nelle università più quotate d'America. Essere ammessi a uno degli atenei della Ivy League garantisce da oltre un secolo non solo una preparazione culturale solida, ma soprattutto l'accesso a una rete di amicizie e contatti sociali che saranno la base del successo futuro.

Golden sostiene che fino al 60 per cento dei posti nelle università della Ivy League sono assegnati ai figli di papà per ragioni che nulla hanno a che fare con il merito. Probabilmente esagera. Altri sostengono che la percentuale è tra il 25 e il 40 per cento. Ma nessuno nega che il problema esista e sia sempre più serio. Ci sono famiglie che elargiscono donazioni per decine di milioni di dollari, fin da quando i bimbi sono piccoli, per spianare la strada all'ammissione. Altri genitori seguono strategie più articolate. Se i pargoli non mostrano uno spiccato amore per gli studi, si decide di addestrarli a primeggiare in qualche sport, meglio se stravagante, per conquistare l'accesso grazie agli allori agonistici. Le più note università accettano un numero crescente di campioni in equitazione e canottaggio, sport diffusi soprattutto tra le élite.

Quando i genitori appartengono alla categoria dei potenti e delle 'celebrities', si assiste a imbarazzanti comportamenti di servilismo. Lauren Bush, top model e nipote del presidente, è stata ammessa a Princeton nonostante abbia presentato domanda un mese dopo la scadenza dei termini, e con un curriculum scadente. Il rettore dell'università ha spiegato che è stata accettata perché l'ateneo vuole "aumentare il numero di studenti non provenienti dall'élite dei liberal di sinistra". Quando la figliastra di Steven Spielberg fece domanda di iscrizione alla Duke University, il direttore andò a casa Spielberg per farle il colloquio. La ragazza fu accettata.

Sulla compravendita delle ammissioni alle università più prestigiose esiste un florilegio di aneddoti. Charles Kushner, noto palazzinaro, ha versato 2 milioni e mezzo di dollari alla New York University prima dell'ammissione del figlio Jared. Margaret Bass, figlia del petroliere Robert, è entrata a Stanford dopo che il padre ha donato 25 milioni di dollari all'ateneo. Barare in questa gara per il successo crea imbarazzo, perché è contrario alle norme fondanti della società americana. Nati come ribellione alle aristocrazie europee, gli Usa hanno iscritto nel proprio codice genetico l'amore per la meritocrazia e l'avversione verso i privilegi di casta, peculiari delle oligarchie d'oltreoceano. La Costituzione americana fu concepita, in opposizione all'Europa, partendo dal principio delle pari opportunità. L'inchiesta di Golden fa scalpore perché intacca il mito dell'American Dream, secondo cui tutti, anche con le più umili origini, possono accarezzare ogni desiderio, anche di diventare presidenti. Le statistiche raccontano un'altra storia. Il reddito medio delle famiglie che mandano il figlio ad Harvard è 150 mila dollari all'anno. E secondo l'Educational Testing Service, solo il 3 per cento degli studenti nei migliori 146 college viene da una famiglia povera (cioè dal 25 per cento con i redditi più bassi).
I dirigenti delle università difendono la propria libertà di scelta sostenendo che il segreto di un buon campus universitario, dove non si studia solo ma si vive in comunità, è nel mix di studenti. Se accettassero solo i ragazzi migliori, i campus della Ivy League sarebbero posti invivibili popolati di secchioni. L'ideale è creare comunità con studenti dagli interessi variegati, di diverse etnie e differenti ambienti socio-culturali. In teoria questi metodi di selezione dovrebbero favorire i ragazzi delle comunità nere più povere. Ma la realtà è diversa. Solo l'11 per cento di chi fa domanda è accettato, ma per i figli degli ex alunni questa percentuale sale al 40 per cento. In altri atenei, come alla Amherst University, si arriva al 50. I veri perdenti sono i giovani di origine asiatica, che primeggiano nei test, ma vengono in gran parte respinti a vantaggio dei figli delle famiglie 'giuste'.

Jerome Karabel, professore di sociologia all'Università di California a Berkeley, ha recentemente scritto un libro, 'The Chosen', il prescelto, che racconta "la storia nascosta dell'ammissione e dell'esclusione a Harvard, Yale e Princeton". Karabel descrive le ingiustizie commesse dagli atenei, cercando di spiegare la logica interna delle loro scelte: da una parte le classi dirigenti che premono a favore dei propri figli, dall'altra le università, spinte dalla forza naturale delle cose ad accettare l'alleanza con le classi dirigenti per mantenere il proprio primato. Non si tratta solo di attrarre i finanziamenti dei ricchi, che così comprano una laurea importante per gli eredi, ma di un sistema di complicità che lega nei decenni le migliori università alle grandi famiglie dell'industria e della politica. E la colla di questo sistema che si autoalimenta sono i laureati, che non devono solo portare il proprio cervello, ma anche, e soprattutto, un solido network di relazioni familiari.

Ma non bisogna pensare che il nepotismo sia solo una cosa negativa. Versare milioni di dollari all'università è solo una tappa di una lunga corsa a ostacoli. Per le famiglie colte e benestanti la sistemazione dei figli è una delle occupazioni più importanti della vita, e richiede anni di impegno: dalla scelta dell'asilo a quella del college fino all'università. Con il tempo si è sviluppata un'articolata metodologia che negli ultimi anni ha assunto caratteristiche paradossali. Adam Bellow (figlio dello scrittore Saul) ha recentemente pubblicato un ponderoso volume ('In Praise of Nepotism', in lode del nepotismo) che racconta con dovizia di particolari questa ossessione. Bellow non parla di raccomandazioni né di donazioni. Quello che gli interessa è il 'nuovo nepotismo meritocratico', basato sulla consapevolezza che il modo migliore per favorire il successo dei figli sia la loro crescita intellettuale, ottenuta con l'acquisizione per osmosi di tutto il patrimonio culturale a cui la famiglia può accedere e a cui i giovani sono esposti per tutta l'infanzia. Si raccontano episodi di docenti universitari che prendono un anno sabbatico per preparare i figli all'esame di ammissione universitario. Staccare un assegno da milioni di dollari è l'ultimo gesto di un percorso per addestrare i figli a primeggiare nella nuova società della conoscenza.

Il neoconservatore David Brooks di recente ha fotografato questo fenomeno in un magistrale articolo sul 'New York Times', in cui finge di riscrivere un nuovo 'Manifesto' in cui Karl Marx si rivolge non più ai proletari, bensì agli incolti, per invitarli alla ribellione contro i ceti intellettuali. Osserva Brooks: "Oggi i bambini vengono trasformati in 'lavoratori della conoscenza' ossessionati dal lavoro, continuamente addestrati, guidati, esaminati, collaudati e preparati per rafforzare il loro dominio di classe. E alla fine, sempre per prolungare e rafforzare l'egemonia di classe, vengono mandati a Berkeley o a Yale". Che questo risultato sia ottenuto con l'addestramento alla cultura o con assegni milionari, a Brooks poco importa. "Gli appartenenti a questa élite si dividono tra repubblicani e democratici che litigano su tutto eccetto che sulla fonte del loro potere: che è poi la stratificazione intellettuale della società ottenuta tramite l'istruzione. Più degli imperatori romani, più dei baroni dell'industria di rapina, i malfattori delle classi istruite non cercano solo di dominare le classi lavoratrici, ma di decimarle". E conclude: "Lavoratori poco istruiti di tutto il mondo, unitevi. Non avete da perdere che le vostre catene".