di Enzo Vizzari
Cala l'ondata spagnola. Torna in auge la grandeur francese. Si riorganizza la sfida italiana. La cucina internazionale fra tendenze del gusto e business
La Francia: cultura, scuola, tecnica. L'Italia: tradizione e prodotti. La Spagna: cultura e storia gastronomica scarse, pochi prodotti e tanta tecnologia applicata. E, soprattutto, una formidabile operazione di marketing, imperniata sulla figura carismatica di Ferran Adrià e l'indotto che la sua affermazione ha generato. Il resto del mondo occidentale? Vive di luce riflessa ma, povero di cultura del gusto e di identità, replica i modelli vincenti. Il Far East e il Nuovo Mondo sono realtà a sé. In parte considerati terreno di conquista, di fatto esportano anche mode.

Semplificato all'estremo, ma realistico, è questo oggi il quadro della competizione internazionale in atto, tra gusto e business, fra scuole, tendenze e paesi. Cuochi, ristoratori, agricoltori, artigiani, commercianti e industriali, insomma intere filiere-paese, sono impegnati in una competizione che si gioca su diversi piani. La Francia è il paese che per primo ha compreso e sfruttato l'importanza del food & wine per la propria bilancia commerciale e per l'immagine. La Spagna l'ha capito più tardi, ma ha saputo mettere in campo un'imponente e ben coordinata forza di fuoco. E, quasi all'improvviso, si è presentata sulla ribalta mondiale come paese vincente. E l'Italia? Nonostante abbia un patrimonio di prodotti di qualità di straordinaria ricchezza e una diffusa cultura gastronomica regionale (invidiati e imitati in tutto il mondo), non è mai stata capace di valorizzarli né di monetizzarli. Mai come in questo momento i prodotti italiani 'tirano' sui mercati, dalla mozzarella alla pasta, dal vino ai salumi, per i quali stanno cadendo barriere storiche: però la promozione è sgangherata. È polverizzata in mille rivoli - costosissimi - alimentati da province, regioni, camere di commercio, consorzi, enti privati e filiazioni di ministeri diversi, dalle Politiche agricole al Commercio estero alle Politiche per il turismo. E nessuno affronta seriamente il problema di una governance complessiva. Non basta: a finire sulle tavole dei consumatori di tutto il mondo non sono i prodotti di qualità, ma quelli più scadenti. O addirittura le contraffazioni.

Difficile vincere in queste condizioni. Anche perché per decenni la ristorazione italiana all'estero si è attestata su standard caricaturali, fiaschi e trecce d'aglio, ruote e mandolini, pizza e spaghetti with meat balls. Eppure questo è il terreno di una competizione globale, la cui componente più spettacolare è rappresentata dal confronto fra cuochi e scuole, fra cucina di tradizione e innovatori, fra i paladini dei territori e quelli del buono senza frontiere, fra chi i prodotti li manipola e chi invece li esalta, tra chi sperimenta e chi progredisce, tra chi fa spettacolo e chi dà da mangiare. Mode.

Così si affievolisce l'ondata spagnola, per effetto della quale il miraggio di ogni giovane cuoco è ormai non più lo stage da Bocuse, Troigros o Chapel, ma da uno dei grandi catalani o baschi, per far propri i segreti di una cucina fondata più su ricerca e tecnica che sulle materie prime. Nessuno può mettere in dubbio che oggi in Spagna si mangi benissimo ai livelli alti, ma se si scende di qualche gradino Francia e Italia restano superiori, con l'aggravante che in Spagna ogni cuoco si sente in dovere di imitare Ferran Adrià con risultati spesso agghiaccianti, come Quique Da Costa; e come avvenne in Italia agli sprovveduti emuli di Marchesi, che affossarono la nouvelle cuisine proponendone la caricatura. Il fenomeno spagnolo ha adepti dappertutto, Francia e Italia comprese: destrutturazione, sferificazione, mineralizzazione, agar e agar e xantana, gelic e calcic, azoto e idrogeno, sifone e paco jet, sono parole d'ordine, prodotti, strumenti, materiali comuni di ogni cucina à la page. Ma in troppi casi servono soltanto per lavorazioni da backstage o per creare effetti speciali davanti al cliente.

A chi ha sottratto visibilità la cucina spagnola? Non all' Inghilterra né agli altri paesi europei che, a parte Londra dove si trovano eccellenti cucine d'ogni origine, non hanno grandi patrimoni da difendere. Non all'America, priva di una propria cucina identitaria. Non ai paesi orientali, altro pianeta. Evidentemente, alla Francia e all'Italia. È vero che i francesi hanno commesso l'errore di considerare inattaccabile la grandeur della propria storia, ed è vero che negli anni Novanta gli è mancata qualsiasi spinta a rinnovarsi. Resta il fatto che la loro cultura e il loro know how nell'h tellerie e nella ristorazione non hanno eguali: i nuovi maestri che hanno preso il posto dei Bocuse, dei Guérard, degli Haeberlin, così come quelli della generazione seguente, non hanno nulla da imparare da giovani e meno giovani leoni baschi e catalani, come Josean Martinez Alija, del ristorante del Guggenheim di Bilbao, e Dani Garcia del Calima di Marbella. La riscossa francese parte da Alain Ducasse e Joël Robuchon, e Pierre Gagnaire dell'omonimo ristorante di Parigi; Olivier Roellinger del suo Roellinger di Cancale, in Bretagna; Bernard Pacaud de L'ambroisie di Parigi; Georges Blanc del ristorante che porta il suo nome, a Vonnas. I più giovani, poi, ereditato il meglio della cultura e della tecnica, stanno dimostrando il coraggio di battere nuove strade senza cavalcare gli eccessi spagnoli. Primo fra tutti, il fuoriclasse Jean-François Piège, all'Ambassadeurs dell'Hotel de Crillon, e poi gli chef che fanno riferimento al gruppo di Génération C e alla rivista 'Omnivore': come Thierry Marx, del Cordeillan Bages di Pauillac, famoso per il 'pomodoro iceberg', cilindro di ghiaccio sormontato da una granita di pomodoro cui viene aggiunto brodo caldo; Pascal Barbot dell'Astrance di Parigi; il 'mago dei funghi' Régis Marcon del Clos de Cimes di Saint-Bonnet-Le-Froid; Jacques Decoret del Decoret di Vichy. Stanno dimostrando che, senza solide basi classiche, non si va lontano sull'onda della cucina creativa, molecolare, chimico-fisica-alchemica.
Concetti che hanno capito benissimo anche i migliori cuochi italiani oggi fra i 30 e i 40 anni, quelli che stanno rafforzando l'identità vincente della nuova cucina italiana. Sono una folta schiera, dalle Alpi all'Etna: Massimiliano Alajmo de Le calandre a Sarmeola di Rubano, Massimo Bottura de La Francescana di Modena, Davide Scabin del Combal Punto Zero di Rivoli, Ciccio Sultano de Il Duomo di Ragusa Ibla. O, ancora, Giancarlo Perbellini del Perbellini di Isola Rizza, Carlo Cracco del Cracco-Peck di Milano, Moreno Cedroni de La Madonnina del pescatore di Senigallia e Mauro Uliassi, del ristorante che porta il suo cognome, sempre a Senigallia. E poi ci sono gli italiani tra virgolette: di nazionalità diversa, ma 'assimilati' alla cucina nazionale, come Heinz Beck del La pergola nell'hotel Cavalieri Hilton di Roma e Philippe Leveillé del Miramonti l'Altro di Concesio, noto per le sue 'variazioni d'agnello'. E ce ne sono tanti altri ancora, sulla scia di Gianfranco Vissani, di Fulvio Pierangelini, di Nadia Santini, di Annie Feolde... Più o meno spinti nella ricerca, hanno fatto gavetta, sono ricercatori di ingredienti di massima qualità, non importa da dove provengano: praticano la cucina dei loro territori d'origine ma sanno cucinare spaghetti, ravioli, tortelli, brasati e tiramisù da concorso con la stessa abilità dei piatti più innovativi. Estimatori dei prodotti nazionali, si guardano intorno e traggono il meglio da influenze diverse, per poi creare una cucina di forte identità italiana: lo dimostra la passione di Bottura per il parmigiano, o il culto di Sultano per legumi e ortaggi siciliani.

Sono colti, brillanti, estroversi e fanno squadra. Lasciano increduli con piatti squisiti e geniali i critici stranieri che, prevenuti, vanno a provare le loro cucine. Hanno le carte in regola per far vincere nel mondo la nuova cucina italiana. Saprà il sistema-paese sostenerli?