Dal «lodo Schifani» del 2003, miseramente naufragato di fronte alla Corte costituzionale, all'odierno progetto di «lodo Alfano» il passo non è breve, anche prescindendo dalle vicende giudiziarie del presidente Berlusconi.

Difficoltà possono sorgere non solo, e non tanto, sul piano dei contenuti, quanto soprattutto sul piano delle procedure di approvazione, trattandosi di materia costituzionale. Circa i contenuti, bisogna riconoscere che il disegno di legge varato dal Consiglio dei ministri per sottrarre alla giurisdizione penale i «presidenti» titolari di una delle quattro più alte cariche dello Stato (mediante sospensione dei processi, ma non delle indagini, nei loro confronti, per reati comuni, cioè non inerenti all'esercizio delle loro funzioni) si è sforzato di adeguarsi alle indicazioni desumibili dalla sentenza n. 24 del 2004, con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittima la corrispondente disposizione del «lodo Schifani».

In questo quadro si spiega, per esempio, che sia stata oggi sancita la temporaneità dello «scudo immunitario» proposto a favore di tali soggetti, circoscrivendolo alla durata della carica, salva l'ipotesi di «nuova nomina» nel corso della stessa legislatura e nella medesima funzione; che sia stata ammessa la possibilità di rinuncia al relativo meccanismo di tutela da parte dei soggetti interessati; ed inoltre che sia stato consentito ai danneggiati dal reato di far valere le loro ragioni agendo davanti al giudice civile. Anzi, in analoga prospettiva di attenuazione delle più vistose anomalie che una disciplina del genere potrebbe provocare rispetto alla sorte dei processi da sospendersi, si spiega altresì che sia stata di regola prevista la possibilità di acquisire prove urgenti perché «non rinviabili»; e, su un piano diverso, che sia stata correlativamente stabilita la sospensione dei termini di prescrizione.

Tutto ciò potrebbe dunque facilitare la «digeribilità», all'interno del sistema, di una disciplina che di per sé configura pur sempre un innegabile trattamento privilegiato, in chiave di temporanea immunità processuale, a vantaggio dei quattro «presidenti» posti al vertice dello Stato (a parte la non superata obiezione, proveniente ancora dalla Corte costituzionale, circa la «intrinseca irragionevolezza» della riserva di un tale privilegio soltanto ai suddetti presidenti, e non anche agli altri componenti degli organi da essi presieduti). Resta vero, tuttavia — ed il rilievo assume carattere pregiudiziale rispetto all'intero impianto della disciplina in questione — che la introduzione di un simile regime processuale differenziato in capo ai titolari delle suddette alte cariche, comporta comunque una deroga profonda al fondamentale «principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione», che secondo la stessa Corte si colloca «alle origini della formazione dello Stato di diritto».

Sicché, anche ad ammettere che una deroga del genere possa accogliersi, nel quadro di un equilibrato bilanciamento dei valori in gioco, con riguardo alla esigenza di assicurare il «sereno svolgimento» delle funzioni inerenti alle medesime cariche (esigenza peraltro piuttosto vaga, e di incerta copertura a livello costituzionale), occorrerebbe in ogni caso che la relativa disciplina venisse adottata non già con legge ordinaria, ma con legge costituzionale. E, quindi, con le particolari procedure imposte dall'articolo 138 della Costituzione. Che si tratti, del resto, di materia tipicamente costituzionale, non possono esservi dubbi, come è dimostrato tra l'altro dalla circostanza che le particolari prerogative riconosciute al presidente della Repubblica ed al presidente del Consiglio (nonché agli altri ministri) di fronte alla giustizia penale, per i reati commessi nell'esercizio delle loro funzioni, trovano specifico fondamento nella stessa Costituzione, o in leggi costituzionali. Le quali, invece, tacciono (con ciò escludendola) rispetto ad ogni altra eventualità di deroga al principio di eguaglianza a tutela di tali soggetti.

A maggior ragione, dunque, si realizzerebbe una pericolosa forzatura, se si pensasse di disciplinare con legge ordinaria addirittura una ipotesi di sospensione dei processi per reati comuni, quindi extrafunzionali, addebitati ai «presidenti» in questione.
Ciò che, evidentemente, potrebbe giustificarsi (sotto il profilo di una pur discutibile «presunzione assoluta di legittimo impedimento», correlata alla durata della carica) non già per obiettive ragioni processuali, ma solo in rapporto allo status istituzionale rivestito dagli stessi. E pertanto si risolverebbe, in definitiva, in una prerogativa costituzionale propria dei medesimi soggetti, la cui fonte non potrebbe essere una legge ordinaria.

Vittorio Grevi

 

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