di Claudio Rinaldi
Il Cavaliere vuole un partito unico in cui solo Forza Italia decide. E An e Lega obbediscono. Per estendere il suo potere. E mettere in un angolo Casini
Silvio Berlusconi
A sentire Silvio Berlusconi, ringalluzzito dopo la grande manifestazione romana del 2 dicembre, l'obiettivo numero uno del centrodestra per il 2007 è già chiaramente delineato. Non si tratta di far cadere il governo Prodi, che è destinato a implodere, sì, ma non si sa quando; né tanto meno di azzerare il Parlamento, essendo del tutto improbabile che un riconteggio delle schede elettorali giunga a sovvertire il risultato del 9-10 aprile. La spallata e lo smascheramento dei presunti brogli sono scemenze, argomenti buoni tutt'al più per la propaganda. La vera scommessa del Cavaliere riguarda il cosiddetto Partito della libertà, la cui costruzione deve essere concretamente avviata fin dall'inizio del prossimo anno.

Il primo passo consiste nel mettere in piedi una Federazione della libertà che superi l'attuale frammentazione del centrodestra. "In questa Federazione", ha detto Berlusconi il 6 dicembre, "vedo bene An e la Lega: con cui non ci sono problemi". La consegna è di non dare la minima importanza alla secessione dell'Udc, i cui elettori l'ex premier è arciconvinto di poter portare dalla sua quando gli pare. In realtà non è affatto certo che Pier Ferdinando Casini si lasci docilmente derubare dei suoi consensi, in crescita da tempo. Riesca o no lo svuotamento del serbatoio centrista, tuttavia, l'effettiva disponibilità di An e Lega a imbrancarsi nella nuova Federazione rimane da verificare. Dentro An la minoranza che fa capo a Francesco Storace si oppone a ogni ridimensionamento del partito; i leghisti sono più possibilisti, ma rivendicano il diritto di combattere in piena autonomia le battaglie che considerano caratterizzanti. E il piglio caporalesco con cui Berlusconi descrive il centrodestra di domani non è fatto per tranquillizzare gli alleati, la cui lealtà viene sollecitata a spingersi fino alla supina accettazione di una disciplina da caserma.

Che cosa dice l'astuto Silvio, infatti, a proposito del costituendo organismo di coordinamento? Semplice: "Dovrà essere una Federazione in cui prevalga l'idea della maggioranza e l'opposizione si adegui". Ora, il caso vuole che messe insieme An e Lega totalizzino sì e no i due terzi dei voti che Forza Italia raccoglie da sola. Se adottasse la regola delle decisioni a maggioranza, dunque, la Federazione si ritroverebbe dominata da uno solo dei suoi membri. Il quale a sua volta non è che una monarchia assoluta, visto che su tutto è Berlusconi ad avere la prima e l'ultima parola. Rivelatrice, il 28 aprile scorso, una frase giulivamente pronunciata da Elio Vito, presidente uscente dei deputati sedicenti azzurri, quando sembrava che dovesse succedergli Giulio Tremonti: "Escludo che si possa arrivare al voto per l'elezione del capogruppo di Forza Italia... Tremonti merita tutti gli incarichi che il presidente Berlusconi vorrà affidargli". Nessuna democrazia interna, insomma, e nomine lasciate ai capricci del sovrano!

Berlusconi non ha mai nascosto, del resto, di coltivare una concezione brutalmente proprietaria del futuro partito unico dei moderati. Presenta apertamente la nuova entità come un espediente per estendere il suo potere personale. Lanciò il progetto subito dopo la disfatta di Forza Italia alle regionali del 2005, quando Gianfranco Fini e soprattutto Marco Follini lo costrinsero a dimettersi per formare un nuovo governo: "Non siamo riusciti", scandì allora davanti alla Camera, "ad avere una coalizione in cui vigesse il principio democratico per cui la minoranza si adegua alle decisioni della maggioranza". Il Partito della libertà non doveva rivoluzionare la rappresentanza politica del centrodestra, doveva soltanto impedire che l'odiata Udc ogni tanto facesse la fronda. All'ultimo meeting di Comunione e Liberazione, in agosto, il Cavaliere ha specificato che per le delibere del nuovo soggetto politico sarebbe bastato l'okay dell'80 per cento dei componenti: una percentuale studiata apposta per impedire che l'Udc, in quel momento non ancora uscita dalla Casa delle libertà, conservasse la facoltà di porre veti. Adesso che l'Udc si è messa in proprio, il quorum dell'80 per cento può essere abbassato...
Se la Federazione della libertà è condannata a sottostare al comando pressoché esclusivo di Berlusconi, si capisce perché costui la voglia costituire senza indugio. L'uomo imputa le sue sconfitte dal 2001 in poi agli alleati, responsabili durante l'ultima campagna elettorale di ben "dieci errori"; e può tornare ad appassionarsi alla politica soltanto se quel che resta della sua coalizione gli dà carta bianca più ancora che nel passato. A 70 anni suonati trova deprimente la prospettiva di languire a lungo all'opposizione, e intollerabile quella di farlo dovendo negoziare ogni mossa con cani e porci. Non è chiaro, invece, che cosa ci guadagnino An e Lega nel federarsi con Forza Italia.

Il fatto stesso che il dialogo si sia aperto alle condizioni poste da Berlusconi conferma che i partiti del centrodestra rimangono in una scoraggiante condizione di sudditanza. Per Fini, ma anche per Umberto Bossi, la grande sfida del 2007 dovrebbe consistere non già nell'accentuare la dipendenza dal Cavaliere, bensì nell'emanciparsene. Al di là degli interessi di carriera dei singoli, liberarsi della leadership di Berlusconi significherebbe per il centrodestra entrare nell'età adulta. Una coalizione che ammetta di non poter nemmeno esistere senza il padre-padrone è un'imbelle scolaresca da giardino d'infanzia, per quanto spesso si sforzi di urlare.

Finora soltanto l'Udc ha osato affermare una pura e semplice ovvietà, cioè che l'ex premier ha ormai fatto il suo tempo. "Il suo ciclo è finito", osservava il 6 dicembre Rocco Buttiglione, "e in amicizia è il caso di farglielo notare". Certo Berlusconi gode tuttora di una popolarità vastissima; ma lui stesso si considera poco più che un pensionato ("Con la politica operativa ho chiuso", 'Libero', 21 novembre), anche se l'orgoglio e l'amore per i bagni di folla gli precludono la strada di un formale ritiro. Ed è grottesco sostenere, con il devoto Sandro Bondi, che "un suo eventuale addio alla politica getterebbe nella disperazione la maggioranza degli italiani", e addirittura "porterebbe alla mancanza di qualsiasi speranza" (7 settembre). Non è così. Anche chi per l'uomo nutre la più viva simpatia non può nascondersi che alla guida del governo ha fallito, benché avesse il totale controllo del Parlamento e un intero quinquennio a disposizione.

C'è bisogno di ricordare qual è stato, nella XIV legislatura, il consuntivo dei due governi Berlusconi? In economia le cose sono andate inequivocabilmente male: sono stati anni di stagnazione, di crescita zero, di stop alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni, di opere pubbliche annunciate ma mai finanziate; intanto lo stato dei conti pubblici peggiorava a vista d'occhio, con la spesa corrente e il debito tornati ad aumentare molto più velocemente del prodotto interno lordo, mentre il rapporto deficit-Pil saliva costantemente oltre il tetto del 3 per cento fissato dagli accordi europei. Un disastro. Con una pressione fiscale che è rimasta pressoché invariata, sebbene nel Contratto con gli italiani del 2001 si favoleggiasse di sgravi mirabolanti.

Il bilancio è ugualmente negativo in politica interna, se soltanto si pensa alla misera fine che hanno fatto le scelte più impegnative e più reclamizzate. La riforma costituzionale è stata clamorosamente bocciata dai cittadini chiamati al referendum. La nuova legge elettorale, scritta da Roberto Calderoli con l'intento di limitare gli effetti della prevista vittoria del centrosinistra, è stata definita "una porcata" dal suo stesso autore. In Parlamento due petulanti commissioni d'inchiesta, la Mitrokhin e la Telekom Serbia, sono state costituite al solo scopo di montare scandali e scandaletti contro gli avversari politici. Nel sistema giudiziario alle vecchie piaghe, ostentatamente non curate, si sono aggiunte le nuove ferite delle leggi salva-Berlusconi e salva-Previti. La politica della sicurezza si è imperniata sull'inutile trovatina dei poliziotti di quartiere. Grandi problemi sociali come quelli dell'immigrazione e della droga sono stati affrontati con i criteri ottusamente repressivi delle leggi Bossi-Fini e Fini-Giovanardi.
E la politica estera? Qui la decisione chiave è stata il gratuito coinvolgimento dell'Italia nell'avventura in Iraq, probabilmente l'operazione più cretina degli ultimi 60 anni. Poi è passato alla storia il semestre italiano di presidenza dell'Unione europea, luglio-dicembre 2003, che è stato gestito con i piedi. Per il resto, a parte le continue gaffes, un fiume di chiacchiere senza senso: sul possibile ingresso della Russia nella Ue, su un fantomatico piano Marshall per la Palestina, su un modello di pubblica amministrazione digitalizzata da rifilare ai paesi in via di sviluppo, sull'uso degli ambasciatori come promotori dell'export italiano... Alla luce di precedenti come questi un ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi, per cattiva che sia la pagella di Prodi, appare inimmaginabile. All'estero ne parlerebbero come di una barzelletta, da noi perfino i tifosi del Cavaliere faticherebbero a prenderlo sul serio.

Ecco perché il solo pensiero della nascente Federazione berlusconiana, il cui perimetro oltretutto si prospetta molto più angusto di quello della fu Casa della libertà, mette tristezza. Rischia di perpetuarsi un modo di fare politica che da anni mostra la corda. È lo stile diseducativo del capo che si spaccia per un Dio, del condottiero che si proclama vincitore anche quando ha perso. Lo stile dell'autoapologia permanente, delle tiritere imparaticce sul comunismo e sulla libertà, delle promesse a vanvera snocciolate per abbindolare i gonzi, delle bugie a raffica, del vittimismo violento, del tornaconto individuale eretto a valore assoluto e perseguito con ferocia. Berlusconi è coerente, dacché è in politica non fa che recitare se stesso; ma il popolo del centrodestra, proprio per le dimensioni imponenti che ha raggiunto, merita di meglio. La modernità non può consistere nel pendere a oltranza dalle labbra di un anziano demagogo.