Le parole (e i gesti) di Umberto Bossi ci hanno messo poco più di dodici ore per arrivare da Padova a Roma. Dall’hotel Sheraton a Camera e Senato.

La terza e la seconda carica dello Stato, i presidenti Gianfranco Fini e Renato Schifani, quasi in contemporanea in apertura dei lavori, hanno condannato senza mezzi termini gli attacchi di ieri all’inno di Mameli.
Per primo Fini, tagliente, saltando i preamboli bolla come inaccettabile il comportamento del leader del Carroccio. Un fatto aggravato dalla responsabilità di governo: «Nessuno, meno che mai un ministro - ricorda - deve pronunciare parole che offendono un sentimento nazionale che sta nell’inno di Mameli e in quello che significa al di là delle parole che lo compongono», perché l’inno «rappresenta l’elemento simbolico dell’Italia e quindi va rispettato».
A strettissimo giro, da palazzo Madama, Renato Schifani, sulla stessa linea ribadisce il concetto della centralità in un contesto democratico dei simboli dell’unità che «sono sacri e riassumono la nostra storia e sono parte costitutiva dell’identità nazionale».
Ma se nelle parole di Fini è chiara ed esclusiva l’intenzione di censurare il comportamento del Senatùr, Schifani chiede di «guardare la sostanza delle linee politiche al di là del linguaggio». Un invito «ad abbassare i toni» e insieme a riconoscere alla Lega il merito di aver avviato il processo di riforma dell’ordinamento in chiave federale. E pur «facendosi carico» di inoltrare la richiesta dell’opposizione «che il governo venga a riferire», ricorda che dallo stesso «convegno di partito» e al di là dello «spiacevole episodio» era uscita una cospicua apertura di credito nei confronti dell’opposizione con l’invito al dialogo e al «confronto costruttivo» sul federalismo.
Un concetto su cui il presidente della Camera Fini resta fortemente intransigente, rimarcando quali presupposti dello stesso disegno di riforma «l’unità nazionale, i suoi simboli, e il rispetto» come «condizioni imprescindibili» per una riforma in chiave federale «soprattutto fiscale». Una trasformazione che è «garanzia di sviluppo dell’Italia intera», e non solo, ribadisce «di una sua parte».
Un obbligo e non una possibilità, che deve portare chi sceglie di ricoprire incarichi istituzionali ad avvertire «identico rispetto» per tutti i cittadini, a prescindere dal luogo di nascita» perché «non esistono italiani del nord, del centro o del sud, ma solo italiani».
A conclusione del suo intervento, Fini ha poi invitato Bossi a chiarire «quanto prima il suo pensiero».
Immediate sono giunte le reazioni dall’interno del Pdl. Per primo il ministro delle Infrastrutture, Matteoli, ha parlato di «due Bossi», uno a Roma «collaborativo nel governo» e uno «in Padania» impegnato in una campagna elettorale permanente. Parole diverse ma concetto simile per il sindaco di Roma, Alemanno: «A Bossi, piacciono le battute. Sono 20 anni che le fa. Ancora ci credete?». A metà del guado il capogruppo alla Camera Cicchitto, che esprime «dissenso» dai fatti di Padova, ma insieme respinge l’uso «strumentale» della vicenda, ricorda il «contributo di innovazione e serietà» della Lega a cui conferma «il rapporto di lealtà e alleanza». Critico è invece Italo Bocchino, vice capogruppo alla Camera, che definisce «limiti invalicabili» i simboli dell’unità. E se per il ministro Scajola «le parole di Bossi sono un falso problema», il collega Fitto giudica «assolutamente non condivisibili» le critiche all’inno e agli insegnanti.
È ormai sera quando infine dal Quirinale giunge il plauso del presidente Napolitano per gli interventi di Fini e Schifani.

 

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