di MASSIMO GIANNINI
Un destino ineluttabile accomuna i presidenti della Repubblica che hanno avuto la ventura di condividere la difficile "coabitazione" istituzionale con un premier come Berlusconi.

 Per un pezzo d'Italia che considera il Cavaliere un «golpista», e non un presidente del Consiglio scelto democraticamente dai cittadini attraverso il sacro rito repubblicano delle libere elezioni, gli inquilini del Quirinale non fanno mai abbastanza per combattere o abbattere il Tiranno. È toccato a Carlo Azeglio Ciampi, che nonostante abbia bocciato e rinviato alle Camere le due leggi più politicamente «sensibili» della seconda legislatura dell'uomo di Arcore (la riforma delle tv e la riforma dell'ordinamento giudiziario) ha subìto più di un assedio dagli estremisti del girotondismo e patito più di un'accusa dai professionisti dell'antiberlusconismo. Oggi tocca a Giorgio Napolitano, che nonostante l'impeccabile gestione dei passaggi più delicati dell'innaturale metamorfosi del bipolarismo italiano (la crisi del governo Prodi, il fallimento delle riforma elettorale e l'avvento del terzo governo Berlusconi) subisce i soliti strattoni da un'opposizione di palazzo che non si rassegna alla sconfitta e pretende il sovvertimento dei principi della sovranità parlamentare. E patisce le offese da un'opposizione di piazza che non conosce le regole ed esige la battaglia tra le istituzioni al di fuori dei paletti dell'architettura costituzionale.

L'offensiva è partita con il «vaffa-day» grillista dell'8 luglio, che ha preso a pretesto (giusto) le leggi-canaglia del premier per sviluppare una forsennata (e insensata) batteria di «fuoco amico»: contro il Pd, contro Veltroni, e soprattutto contro il Quirinale. Poi è toccato a Di Pietro, che ha cavalcato Piazza Navona con una disinvoltura a dir poco irresponsabile, all'insegna del nuovo motto consolatorio e pre-rivoluzionario: «Il regime non passerà!». Poi è stata la volta dell'Unità, che sia pure con tutto il garbo possibile ha spiegato comunque al capo dello Stato che promulgare la legge sulle immunità delle quattro alte cariche dello Stato è come apporre la firma su quello che Guido Carli, in altri tempi, avrebbe chiamato un «atto sedizioso». Infine, in un crescendo di qualunquismo e di pressappochismo, è Beppe Grillo a tornare sul «luogo del delitto». E stavolta non con la critica politica, ma con l'insulto personale.

«Napolitano è in salute?», si chiede il nuovo Torquemada della mediocrazia italiana sul suo blog. Si fa la domanda, e si dà la risposta. «La salute può essere l'unica giustificazione del suo comportamento. Vorrei essere rassicurato se è in grado di esercitare ancora il suo incarico e per quanto tempo. Se possibile disporre della sua cartella sanitaria...». Sono parole che si commentano da sole. E non meriterebbero neanche una replica. Dopo la manifestazione dell´8 luglio avevamo parlato di "subcultura", suscitando su Internet la reazione sdegnata dei grillisti. Di fronte alla nuova invettiva del Grande Imbonitore, non sapremmo trovare una definizione migliore. Ma una replica s'impone, perché queste parole riflettono una malattia diffusa, che è nata in una certa destra ma ormai sembrano attecchita anche in una certa sinistra: l'uso congiunturale della Costituzione e l'abuso conflittuale delle istituzioni. Nel caso di specie (il lodo Alfano) Napolitano ha fatto il suo dovere. Ha firmato una legge varata dal Parlamento. Poteva respingerla, se vi fossero emerse antinomie palesi e profili di manifesta incostituzionalità (combinato disposto degli articoli 74 e 87 della Carta fondamentale). Ma nella legge sull'immunità queste «falle» pregiudiziali non compaiono. Il governo ha persino recepito alcuni rilievi con i quali la Corte costituzionale aveva decretato nel gennaio 2004 l'illegittimità dell'analogo Lodo Schifani.

Vogliamo rassicurare Grillo e i grillisti: il presidente della Repubblica non solo è in ottima salute sul piano fisico e mentale, ma è anche in perfetta forma sul piano politico e istituzionale. I militanti del «vaffa» dovrebbero sapere che Napolitano non è Sarkozy o Bush e che il nostro capo dello Stato non può prevaricare le Camere, senza trasformare la repubblica parlamentare in regime presidenziale. E dovrebbero sapere che il sindacato definitivo sulla costituzionalità delle leggi non spetta al Quirinale, ma compete invece alla Consulta. Non capire tutto questo, e continuare a sparare a casaccio sul Quartier Generale, per certa sinistra barricadera è un errore uguale e contrario a quello che sta compiendo la destra egemone. È un altro modo per snaturare la dialettica democratica, e per alterare il fisiologico bilanciamento dei poteri.

La critica al Colle non configura di per sé un reato di «lesa maestà». Ma andrebbe per lo meno ben motivata, e ben argomentata. A chi giova, invece, l'ingiuria gratuita? A chi conviene trascinare anche Napolitano dentro la palude indistinta del senso comune dominante, dove tutto è sempre e solo «casta», dove si annacquano i distinguo e si accorciano le distanze, dove tutti sono uguali e ugualmente meritevoli di sberleffo satirico, di disprezzo pubblico, di condanna morale? La vera, subdola insidia del berlusconismo, l'ossimoro della «rivoluzione istituzionale» che incarna, la deriva di «autoritarismo plebiscitario» che rappresenta, meritano risposte diverse, più forti e più alte. E regalare Napolitano al solo Popolo delle Libertà, invece che lasciarlo a rappresentare tutto il popolo italiano, non è solo un clamoroso svarione tattico, ma è anche e soprattutto un rovinoso errore politico.

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