Roma Due donne che si sorridono, che si stringono la mano e che, quarant’anni dopo, chissà, magari diventeranno pure amiche.
Intanto parlano dei figli, di come crescono i nipoti e di come darsi appuntamento. «Voglio rivederla presto», propone Gemma Calabresi. «Voglio invitarla a casa mia, venga a trovarmi», risponde Licia Pinelli. Quarant’anni dopo, sono ancora vestite di nero perché il loro è un lutto indelebile. Ma adesso sono lì, in seconda fila nel salone dei Corazzieri, e insieme chiudono una brutta pagina del nostro libro di storia. La vedova dell’anarchico volato da una finestra della Questura di Milano e la vedova del commissario ammazzato dai terroristi. «Finalmente possiamo guardarci negli occhi, finalmente due famiglie si ritrovano – dice Gemma Calabresi –. È assurdo che quest’incontro non sia potuto avvenire prima, ma i preconcetti ci hanno voluto vedere sempre contrapposte». «Anch’io l’ho pensato molte volte – ribatte Licia Pinelli –. Facciamo finta che questi anni non siano passati».
Due donne forti. La moglie dell’anarchico ingiustamente accusato della strage di piazza Fontana e la moglie del poliziotto ingiustamente accusato di aver ucciso Pinelli. Quando entrano, insieme a Giorgio Napolitano, ci sono applausi ed emozioni forti e anche il senso di assistere a una giornata a suo modo storica. Due vittime, che la forza delle cose aveva sempre sistemato su due barricate opposte, e che ora camminano fianco a fianco, offerte dal capo dello Stato come segnale forte di una riconciliazione possibile. «È vero, siamo stati tutti un po’ vittime della stagione dell’odio e del terrorismo – commenta Gemma Calabresi –. Ora non è più tempo delle recriminazioni ma della memoria che deve essere sgombra da sentimenti di rancore». Poi si china verso la signora Pinelli, già seduta al suo posto e la saluta con affetto. «Sono emozionata».
Emozionato appare anche Giorgio Napolitano, il regista dell’operazione. Inizia ricordando cosa furono gli anni di piombo, quando «si incrociarono diverse trame eversive, da quella della destra neofascista con depistaggi e connivenze in apparati dello Stato» e quelle «della sinistra estremista e rivoluzionaria, fino al dilagare del terrorismo delle Brigate Rosse». Il capo dello Stato parla della bomba di Piazza Fontana e «della lunga e tormentatissima vicenda di indagini e processi da cui non si è riusciti a far scaturire una esauriente verità giudiziaria». L’obiettivo, sostiene, era destabilizzare il sistema democratico. Sono rimaste «delle ombre» ma non esisteva «il fantomatico doppio Stato», cioè un golpismo infiltrato ad alti livelli, tant’è vero che «siamo rimasti sempre uno Stato democratico».
E qui parla di Pino Pinelli e la voce gli si rompe in un pianto. «È stato due volte vittima, di pesantissimi e infondati sospetti e poi di un’assurda fine. Non lo dico per riaprire il processo, concluso da un magistrato di indiscutibile scrupolo, ma per fare un gesto politico, rompendo il silenzio su una ferita non separabile da quella dei 17 che persero la vita a Piazza Fontana e ridare l’onore a un uomo».
Sofferenze simili a quelle dei parenti delle vittime del «partito armato» invitati al Quirinale per la giornata della memoria. Napolitano usa parole dure perché «ci sono ancora memorie romanticheggianti di quegli anni che non sono accettabili. Non si può scambiare l’eversione, l’attacco criminale allo Stato e alle persone per manifestazioni di dissenso o contestazione politica. Per quelle scelte, per quei comportamenti non ci sono giustificazioni o attenuanti».
E non ce ne sono nemmeno per «i trattamenti di incomprensibile indulgenza» concessi da Francia e Brasile a Cesare Battisti e Marina Petrella, «terroristi condannati per fatti di sangue e da lungo tempo sottratti alla giustizia italiana». Il capo dello Stato ha dovuto «prendere posizioni ufficiali e inviare messaggi» a Lula e Sarkozy per difendere il prestigio della nazione. Ora chiede ancora di «essere ascoltato».