di Stefano Livadiotti
Un deficit che cresce. E rischia di minare il bilancio dello Stato. Colpa di un sistema allo sbando. Tra abusi. Errori. E inefficienze
Quattro miliardi e 400 milioni di buco nel 2005. Altri 2,4 nei primi cinque mesi di quest'anno, che alla fine potrebbe chiudere con un profondo rosso di 10 miliardi. I dati sulla scrivania del neo-ministro dell'Economia, Tommaso Padoa Schioppa, dicono che il bilancio della sanità italiana, terza impresa nazionale per giro d'affari, è fuori controllo. Una bomba a orologeria per il governo di Romano Prodi, già alle prese con l'eredità di Silvio Berlusconi: un rapporto tra deficit e Pil che fila dritto verso il 5 per cento e impone di trovare in fretta una cifra compresa tra i 9 e i 14 miliardi.

Se i conti di ospedali e Asl non tornano, in teoria, il problema è tutto del sistema regionale e dei suoi amministratori. Sono loro che devono farsi carico, vendendo i gioielli di famiglia o aumentando le tasse, della maggior spesa rispetto al budget stabilito dallo Stato. Pena il commissariamento. Ma nei fatti le cose non stanno così. Lo dimostrano le ultime leggi di bilancio, nelle quali lo Stato ha ripianato, almeno in parte, i disavanzi accumulati. È successo nella finanziaria per il 2005, quando è stata varata una sanatoria da un miliardo e mezzo. E ancora in quella per il 2006, con un nuovo colpo di spugna da 2 miliardi.

La sanità italiana, che da sola fagocita un quarto dell'intera spesa per la protezione sociale, è un pozzo senza fondo. Secondo le proiezioni del Ceis, il Centro-studi economici e sociali dell'Università di Tor Vergata, il prossimo anno brucerà, nel migliore dei casi, 98,3 miliardi. Che potrebbero però salire a 103,1. E la situazione è destinata a peggiorare. Anche per il solo fattore demografico. I quattro quinti dell'assistenza sanitaria necessaria a una persona si concentrano infatti nell'ultimo venti per cento della sua vita. E nel 2050 gli over 65 saranno il triplo dei giovani (17,8 milioni contro 5,9). Secondo uno studio di Vittorio Mapelli della Statale di Milano, già nel 2010 la sola spesa per i farmaci a carico del Servizio sanitario rischia di far registrare una crescita del 142,7 per cento. "Nel giro di dieci o quindici anni il fabbisogno medico si porterà via poco meno di un sesto del Pil", calcola Ivan Cavicchi, docente di Sociologia dell'organizzazione sanitaria.

I governatori regionali si difendono cifre alla mano. E citano i dati dell'Health Data 2005 dell'Ocse, secondo i quali nel 2003 la spesa sanitaria italiana non è andata oltre il 6,3 per cento del Pil. Ospedali e Asl, insomma, sarebbero costati molto meno che in Francia (7,7 per cento del Pil) e Germania (8,6 ). I numeri però non dicono tutto. Per esempio, che la copertura assicurata dallo Stato alla spesa sanitaria in Italia è inferiore rispetto ai paesi presi a confronto: il 75,1 per cento, dice sempre l'Ocse, contro il 76,3 della Francia e il 78,2 della Germania. Uno studio di Ambrosetti-The european house rivela che tra il 2000 e il 2005 la spesa degli italiani per i farmaci è cresciuta del 7 per cento l'anno.

Ma non è solo questione di cifre assolute. Il fatto è che la gestione di questi soldi fa acqua da tutte le parti. Secondo l'ultima indagine Eurobarometro della Commissione europea, solo lo 0,8 per cento degli italiani è molto soddisfatto del servizio sanitario. La media Ue è 11 volte più alta. I molto insoddisfatti sono invece il 25,9 per cento. Due volte e mezzo più della media continentale. Dati confermati lo scorso anno dall'Ocse: solo i portoghesi e i greci si lamentano dei loro ospedali più degli italiani. Che infatti sempre più spesso decidono di mettere mano al portafoglio per trovare rifugio nella sanità a pagamento: "Nel corso dell'ultimo quindicennio il finanziamento privato ha visto aumentare il suo peso con un incremento di incidenza sul Pil superiore a quello della componente pubblica", si legge in uno studio del Cerm, che sottolinea come un fatto simile si sia registrato solo in Italia e in Spagna. Risultato: secondo dati dell'Istat rielaborati dal Ceis, al momendo di saldare la parcella della clinica l'1,3 per cento delle famiglie finisce sotto la soglia di povertà.
La sanità laziale chiuderà il 2006 con un disavanzo di un miliardo e 800 milioni di euro su un bilancio di otto. Vuol dire che per ogni quattro euro di giro d'affari ne perde uno. In questa situazione qualunque azienda avrebbe portato da un pezzo i libri in tribunale. Nella sanità è diverso. Il fatto è che non c'è separazione tra l'acquirente del servizio, cioè lo Stato, e chi lo eroga, cioè l'ospedale, che sempre Stato è. Per di più, chi paga non decide, avendo ceduto i poteri alle regioni. Un meccanismo perverso. Come si vede dai risultati.

Siccome lavorare stanca e la busta paga è comunque assicurata, gli ospedali non sono propriamente un modello di efficienza. I manager che dovrebbero far girare la macchina sono ostaggio della lottizzazione politica (in alcune regioni si è stabilito, con voto unanime, che un mandato consiliare conferisce il requisito per ricoprire le massime cariche nelle aziende sanitarie pubbliche). Uno studio del Cergas-Bocconi sulla governance sanitaria ha rivelato che in media i direttori generali di Asl e opedali resistono in carica 3 anni e 7 mesi. In Calabria le porte girevoli dello spoils system entrano in azione addirittura ogni 20 mesi. In così poco tempo i dg dovrebbero mettere le mani in situazioni disperate. Con un vincolo insormontabile: grosso modo il 70 per cento dei bilanci ospedalieri è fatto di retribuzioni. Che vengono decise da governo e sindacati a livello centrale. In base a un modello che non cambierà, se dal mondo sindacale provengono due dei tre nuovi sottosegretari del ministro Livia Turco. Così, i manager tirano i remi in barca e si difendono. In maniera scomposta. Negli Usa c'è una tradizione nelle classifiche degli ospedali. E chi deve scegliere sa come orientarsi. In Italia quelli dell'Istituto superiore di sanità si sono azzardati a verificare la mortualità post operatoria per i by-pass ortocoronarici. Hanno stilato una graduatoria. E beccato una querela.

Senza governo, il mastodonte sanitario procede alla cieca. L'idea di risparmiare non passa per la testa a nessuno. I dati del Cerm dicono che sul totale dei farmaci utilizzati quelli più economici, i generici, rappresentano solo il 4,85 per cento, contro il 42,2 negli Usa e il 33,8 in Gran Bretagna. La prevenzione è solo una parola. Secondo l'osservatorio Ocse 'Health at a glance', nel 2003 l'Italia investiva sulla salvaguardia della salute lo 0,6 per cento della spesa sanitaria, superata da paesi come Canada (8 per cento), Olanda (5,5) e Usa (3,9), ma anche da Messico e Corea. E non turba i sonni di nessuno la rendita di posizione dei farmacisti, che vantano un ricavo medio ante imposte superiore del 26,7 per cento alla media Ue.

Le risorse disponibili sembrano distribuite più come in una riffa che in base a business plan. La Lombardia impiega 0,74 medici per posto letto utilizzato; in Umbria ne servono 1,20. La Ligura schiera 3,16 infermieri per paziente; il Lazio se ne fa bastare 1,74. I confronti internazionali, poi, si trasformano in un rompicapo. Nessuno sa spiegarsi come mai l'Italia abbia 567 medici ogni 100 mila abitanti. Vuol dire il 56,2 per cento in più della Germania. Che, rispetto all'Italia, ha il doppio degli ospedali (4,26 ogni centomila cittadini, contro 2,22). E ancora: vai a capire perché l'Italia ha un numero di apparecchi per le risonanze magnetiche superiore a quello di Germania e Gran Bretagna messe insieme. E oltre il triplo degli scanner della Francia. Dove però non ci sono liste d'attesa.

Il Ceis ha controllato i bilanci di 96 ospedali. Verificando il costo di un'operazione standard. È venuto fuori che al Cotugno di Napoli servono 6.779,86 euro. Mentre al Vittorio Emanuele di Gela ne bastano 2.080,22. Un dato che dev'essere sfuggito a chi ha curato il programma dell'Unione. Dove si legge: "Di fronte agli scenari catastrofistici sull'insostenibilità dei sistemi sanitari pubblici e universalistici, occorre invece ribadire che sono in crisi gli altri modelli che hanno introdotto il mercato nella sanità... Il sistema è malato, ma si può curare: serve il coraggio delle scelte".