La devolution sanitaria ha messo in campo diversi modelli che oggi indicano chiaramente costi e conseguenze di ogni scelta. Quelle di Lazio, Lombardia e Emilia-Romagna sono le ricette più marcate.

Lazio Quattro miliardi di euro di deficit: una voragine. Dovuta agli accreditamenti selvaggi che hanno fatto esplodere il consumo di diagnostica, ma anche a un record di consumo di farmaci pro capite: 306 euro a testa, primi in Italia. ma soprattutto, la vera peculiarità romana. Perché a Roma è la sanità cattolica a fare la parte del leone, con una ventina di cliniche e istituti di riabilitazione, due policlinici universitari su quattro (il Gemelli e il Campus Biomedico) e grandi istituti specialistici come il pediatrico Bambin Gesù, l'Istituto Dermopatico dell'Immacolata e il neurologico Santa Lucia. Con questi centri, che hanno la loro tutela oltre il Tevere, non vale se non marginalmente la regola virtuosa del pagamento a prestazione, ma quella molto più lasca del pagamento a piè di lista. In regione hanno fatto i conti e scoperto che se un ospedale come il Bambin Gesù venisse remunerato esclusivamente a tariffa per prestazioni erogate, guadagnerebbe la metà di quanto effettivamente percepisce, e il Gemelli il 70. "Per invertire la rotta rispetto al deficit spaventoso accumulato negli ultimi anni dal Lazio, l'unica politica efficace sarebbe quella di remunerare tutte le strutture sanitarie per prestazione erogata, utilizzando le tariffe come strumento di governo dell'offerta", chiarisce Carlo Perucci, direttore del Dipartimento di epidemiologia Asl Roma E. Ma si tratterebbe di una rivoluzione che andrebbe a intaccare formidabili rendite di posizione tutelate da interessi politici fortissimi.

Lombardia Nel 2002 Lazio e Lombardia marciavano con deficit simili: la Lombardia perdeva 322 milioni e il Lazio 570 milioni. Poi Milano ha cominciato a recuperare e ha chiuso in attivo il 2005, mentre il Lazio è sprofondato. Come mai, visto che ambedue le regioni hanno puntato sulla sanità privata? Dopo anni di espansione dei consumi fra il 2002 e il 2003 Roberto Formigoni avvia una politica di tagli di posti letto, un blocco totale delle assunzioni dei medici, la soppressione di una quarantina di pronto soccorso e soprattutto mette un tetto alle prestazioni erogate dagli ospedali. Architrave del piano di rientro, firmato dall'allora assessore alla Sanità Carlo Borsani, è la trasformazione delle Asl per sbarazzarsi il più possibile dei servizi che esse erogavano direttamente alla cittadinanza e trasformarle in pagatori delle prestazioni di enti pubblici e privati visti alla stregua di fornitori. Di fatto si è trattato di un razionamento che costringe ogni anno ospedali pubblici e centri privati a contingentare una serie di prestazioni anche importanti spingendo i malati che possono permetterselo a ricorrere alle prestazioni a pagamento: ogni lombardo spende di tasca propria in media 176 euro l'anno a fronte di una media nazionale di 141 euro. Ai tagli, che hanno colpito soprattutto i letti di medicina e le attività di assistenza degli anziani e dei malati cronici, si aggiunge poi la leva dei ticket (2 euro a pezzo per i farmaci e fino a 46 euro per la specialistica), che insieme all'aumento dell'addizionale regionale Irpef, fruttano circa 600 milioni all'anno. Ma, commenta l'esperto di economia sanitaria del gruppo verde della Regione Lombardia Aldo Gazzetti: "Quella di scaricare i costi della sanità sulla popolazione è un gioco che si può fare in una regione ricca come la Lombardia".



Emilia Romagna Di registro opposto la ricetta bolognese: la Asl non è l'ufficiale pagatore, ma la Grande Madre che prende in carico il cittadino-paziente in tutti i momenti della sua vita sanitaria e attraverso il contingentamento dei servizi inappropriati gli impedisce di sperperare. Niente ticket sui farmaci, ma piani disegnati coi medici di base per convincere la categoria a prescrivere solo ciò che serve, niente addizionale Irpef, ma tagli mirati, niente privato. L'ospedale non è che un perno del sistema e assorbe solo il 43 per cento della spesa (la quota più bassa d'Italia), mentre tutto ruota attorno all'assistenza domiciliare e distrettuale, che assorbe infatti il 52 per cento. Medici, infermieri, assistenti sociali, volontari: tutti sono chiamati a far funzionare il sistema in una rete che va dalla regione ai piccoli comuni. E da un deficit di 50 milioni nel 2002, oggi l'attivo è di 20, senza negare nulla a nessuno, ma senza indulgere in consumismi. Così all'assessore Bissoni che reclamava un qualche riconoscimento, l'ex ministro Sirchia sbuffava: "Fai presto tu: prendi una decisione poi convochi i soviet e dai gli ordini".

 Fonte:  http://espresso.repubblica.it/dettaglio//1332927/&print=true