Il loro populismo in America Latina oggi è in crisi. Come dimostrano i casi di Cile e Brasile. Ma non è ancora vinto
Chi avrebbe mai immaginato che all'inizio del XXI secolo l'ottantenne dittatore comunista di una piccola isola in dissesto avrebbe avuto un'influenza sull'America Latina pari a quella del presidente degli Stati Uniti? Strano, ma è così: la geopolitica è stata deviata dal realismo magico e la superpotenza globale pare una reliquia politica, mentre Fidel Castro esercita la sua influenza, pari a quella di George W. Bush. I più intimi alleati di Castro sono al potere o sono alcuni dei più popolari politici dei loro rispettivi Paesi. Il suo antiamericanismo è trionfante. Le sue idee, liquidate pressoché ovunque dalla fine degli anni Ottanta, non sono più oggetto di studio nei libri di storia, bensì temi caldi dei dibattiti nazionali, delle piattaforme elettorali e, in alcuni Paesi, delle decisioni dei governi.

Questo risultato assai inverosimile è dovuto a tre fattori trainanti principali: la disillusione dei latino-americani nei confronti del libero mercato e delle politiche filoamericane diffuse negli anni Novanta; le nuove priorità statunitensi all'indomani dell'11 settembre (combattere il terrorismo islamico, le guerre in Afghanistan e in Iraq), in seguito alle quali l'America Latina è diventata in buona parte trascurabile; e infine l'ascesa al potere in Venezuela di Hugo Chávez. Quest'ultimo fattore sarebbe a sua volta trascurabile se non fosse per la coincidenza dell'entusiastico e ammirato abbraccio a Castro da parte di Chávez e della ricchezza petrolifera che ha consentito al presidente venezuelano di salvare l'economia cubana e al contempo acquisire peso politico in tutto il continente. Nei suoi frenetici investimenti politici Chávez è stato guidato da Castro e sostenuto dai diplomatici e dai servizi cubani d'intelligence, esperti nell'operare all'estero in contesti politici burrascosi. I soldi venezuelani e l'intelligence cubana si sono amalgamati in una miscela esplosiva, ormai presente nelle politiche interne di tutta la regione.

Ma non sono stati soltanto il petrolio di Chávez e gli agenti di Castro: a tornar utili a Chávez e ai suoi alleati sono stati anche il mercato antiamericano, quello che si oppone al libero mercato, e i messaggi antiglobalizzazione. In tutta la regione la mediocre performance economica degli ultimi due decenni si è stagliata in aspro contrasto con le strombazzate promesse di un'imminente prosperità che avrebbe dovuto essere garantita dall'adozione di politiche economiche orientate al libero mercato e dalla firma di accordi per il libero commercio con gli Stati Uniti. Il fatto che queste politiche siano state annunciate spesso ma mai messe in atto, o il fatto che la loro attuazione sia malriuscita, incompleta o male interpretata, è una realtà di cui pochi hanno intenzione di prendere atto, una realtà comprensibilmente irrilevante per i milioni di persone che tribolano per sfamare le loro famiglie. Per molti latino-americani le riforme economiche degli anni Novanta sono state soltanto una delle tante truffe portate a segno dagli Stati Uniti in combutta con le élite locali.

Mentre la regione combatteva contro una deludente performance economica, spiacevoli realtà sociali e un crescente risentimento, gli Stati Uniti avevano altre emergenze di cui occuparsi nel mondo. Di conseguenza, si è andata esacerbando una tendenza già presente da tempo: l'attenzione di Washington per l'America Latina si è fatta quanto mai sporadica, frammentaria e contraddittoria e il processo decisionale è diventato ancor più noncurante e inefficiente.

I problemi socio-economici dell'America Latina possono essere risolti soltanto dai latino-americani. La maggior parte dei problemi della regione non sono causati da Washington: si tratta piuttosto di ferite auto-inflitte, procurate da élite rapaci che esercitano forme di controllo sui processi decisionali a Buenos Aires, Caracas, Brasilia o Città del Messico.

Ciò nonostante, come dimostra il Cile, non è infondato sperare che un certo progresso sociale sia realizzabile: il Paese ha tolto dall'indigenza milioni di persone perseguendo proprio le politiche disprezzate da Chávez e dai suoi emuli. In più, come testimonia il caso del Brasile, può anche accadere che un presidente democratico, orientato a sinistra, che ha a cuore la sorte dei poveri, eviti le allettanti trappole populiste che, è risaputo, sul lungo periodo arrecano danno proprio ai poveri.
I recenti risultati elettorali di Perù e Messico dimostrano che l'elettorato non si lascia influenzare tanto facilmente dalle promesse di politiche ispirate a Castro e finanziate da Chávez. In realtà, piuttosto, è quanto mai chiaro ormai che per un candidato essere intimo di Chávez equivale a qualcosa di rovinoso. Eppure, nello stesso modo in cui era troppo presto per presagire che l'America Latina si sarebbe diretta a sinistra, così ora è prematuro annunciare la nuova sconfitta della sinistra castrista. Dopotutto, infatti, i presupposti dell'ascendente di cui gode - povertà, disuguaglianza, emarginazione, corruzione - sono ancora presenti, come del resto Castro e Chávez. E il petrolio è arrivato a 70 dollari al barile.

traduzione di Anna Bissanti