di Massimiliano Fuksas
Le aree urbane in passato sono spesso state disegnate da uomini di potere in base a logiche politiche. Ma oggi gli architetti dovrebbero porre attenzione alle esigenze sociali 
San Pietroburgo
Il sociale e la città è un tema che ricorre periodicamente come le stagioni nella elaborazione teorica dell'architettura. Si è sempre cercato di pervenire a una conclusione definitiva e certa nei rapporti tra la struttura urbana e la sua incidenza nel sociale. È un po' come tutte le teorie che si pongono l'ozioso quesito se sia l'uomo a produrre aggressività o al contrario è la società che produce i mali di cui l'uomo è vittima.

La Biennale di Venezia di quest'anno, inaugurata il 7 settembre, riporta ai temi urbani e sociali di quest'epoca difficile di post-globalizzazione. Naturalmente ogni disquisizione e ipotesi ha il corollario ben noto: il 60 per cento della popolazione mondiale ormai vive in aree urbane.
L'idea di città, a parte le teorie del Rinascimento, ha avuto emblematicamente significato quando uomini di potere (quasi assoluto o assoluto) hanno deciso il bene e qualche volta il male dei popoli amministrati. Per esempio San Pietroburgo, come tutti sanno, è nata per volontà dello zar Pietro, il quale, un po' per ragioni militari, la guerra contro gli scandinavi che risalivano il fiume Neva in un'area paludosa, e un po' per sfuggire ai complotti di palazzo a Mosca, ebbe l'idea di costruire una città. E tra l'altro inventò il concetto di prospettiva urbana facendo una strada lunga chilometri.

Poi toccò ad Haussmann. Poi in generale alle città dell'800. A parte pochi interventi come i citatissimi casi di Brasilia, Chandigarh, e Dhaka, esempi di architetti impegnati non in singole opere, ma in grandi aree urbane ce ne sono ben pochi. La Cina stessa, che poteva essere il primo paese a dare senso a una nuova visione urbana, è ricaduta nel sistema dell'urbanistica anglosassone e occidentale.

Cambiano soltanto quantità e dimensioni. Nel pendolo del gusto (tanto per citare il grande Gillo Dorfles), fra critica all'architettura iconica e landmark, e riscoperta dell'urbanistica sociale, il giusto equilibrio è in quel territorio tra le due opzioni: architettura iconica - urbanistica sociale. In ogni caso, chiamiamolo sociale o chiamiamolo etico, è sempre a questo ambito che l'architetto dovrebbe porre attenzione.
E non solo. Non è facile attribuire percentuali di responsabilità per i problemi che oggi investono le grandi metropoli. Quanto, in percentuale, di responsabilità è da attribuire ai politici, agli speculatori immobiliari o agli architetti? Oppure tutti insieme, politici, immobiliaristi, abitanti, urbanisti, architetti, filosofi, sono ugualmente preda di una incomprensione dei fenomeni urbani attuali?

 

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