di Gigi Riva
Nelle trattative con Teheran sul nucleare l'Italia rivendica il suo ruolo. In base al peso degli investimenti e delle buone relazioni
Aiutaci, Italia. Gli iraniani sono troppo orgogliosi per chiederlo così apertamente, però questo è il senso della frenetica attività diplomatica che da un paio di mesi corre sull'asse Teheran-Roma, con sovrapporsi di iniziative diplomatiche ufficiali e parallele, in una corsa contro un tempo che sembra sempre sul punto di scadere, salvo trovare pretesti e parole per una nuova dilazione. Coincidono, nello scambio, la somma di due interessi: il nostro a rientrare in un gioco cruciale da cui eravamo esclusi, il loro ad allargare la fascia del dialogo nella speranza, nemmeno troppo nascosta, di trovare qualcuno disposto ad ascoltare ragioni inaudibili per orecchie anglosassoni. La posta in gioco è il nucleare degli ayatollah 'per usi civili' come pretenderebbero, 'per usi militari' come si sospetta nella totale mancanza di fiducia verso un regime che da quasi trent'anni ha scarse o nulle relazioni con la comunità internazionale.

La linea della Farnesina è chiara, a più riprese ribadita da Massimo D'Alema: serve il dialogo. Per il quale, tuttavia, bisogna essere in due. Il ministro degli Esteri non si è mai sottratto alle richieste di incontri arrivati, soprattutto, dal mediatore di Teheran Ali Larijani. Nello stesso tempo altrettanto urgente è l'esigenza di non spezzare un fronte comune coi partner europei, dato che si è scelto di dare una chance al tentativo di mediazione dell'inviato dell'Unione Javier Solana. È la riproposizione, in circostanze diverse, dello stesso schema utilizzato per il conflitto tra Israele ed Hezbollah, con l'Europa che riprende un ruolo in Medio Oriente dopo anni di ritardi e di inazione. Se i passaggi possono essere diversi, se si preferisce utilizzare più la carota degli incentivi che il bastone delle sanzioni, identico è lo scopo finale: impedire l'approdo all'atomo che potrebbe scatenare una proliferazione incontrollata nell'area più delicata del mondo. D'Alema è stato franco su questo e crede però ci sia ancora uno spazio di manovra, pur se vede montare, attorno a sé, "a macchia d'olio", come ammettono i suoi collaboratori, quello scetticismo sulle intenzioni di Teheran di cui gli americani sono i primi portatori. Ci sono del resto alcuni fatti inequivocabili. Il rapporto di El Baradei, direttore generale dell'Agenzia atomica di Vienna, consegnato alla fine di agosto, sottolinea l''inadempienza' iraniana rispetto alla richiesta di sospensione dell'attività di arricchimento. Né l'agenzia è stata in grado di controllare i siti per confermare o meno che il programma nucleare è a scopo civile. Da allora sarebbero potute scattare le sanzioni se non ci fossero quei tempi supplementari concessi a Solana che non potranno essere eterni. Che si arrivi presto o tardi alle sanzioni, sembra ormai inevitabile. Ma quali? "Quelle puramente economiche", fa notare un ambasciatore, "non hanno mai raggiunto un obiettivo politico, in nessuno dei luoghi in cui sono state applicate". Oltretutto, in questo caso, andrebbero a colpire anche l'esportazione di petrolio e di gas di cui il pianeta ha fame (4 milioni di barile al giorno prodotti, export per 46.931 milioni di dollari nel 2005). L'Iran si potrebbe rivolgere a Oriente, per svilupparsi su mercati con cui ha già proficui rapporti come quelli indiano e cinese. Sono allo studio allora punizioni di carattere politico e a gradazione crescente: restrizioni nella circolazione dei ministri e nella mobilità della popolazione, inasprimento del regime dei visti.

Sarebbero più dure da accettare per un regime che patisce l'isolamento internazionale, come ha avuto modo di constatare anche l'ex presidente della Camera e leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini in occasione di una sua recente visita a Teheran come presidente dell'Interparlamentare dove ha incontrato anche il presidente Mahmoud Ahmadinejad. Il quale non ha mancato di fargli notare come la Rivoluzione khomeinista non sia stata riconosciuta a distanza di 27 anni e come si neghi al suo Paese il rango che gli spetterebbe di forza regionale in grado di influire sui vari conflitti aperti, dall'Afghanistan al Libano, alla Palestina. Casini è stato fortemente colpito dalla sfiducia totale di Ahmadinejad verso l'approccio multilaterale alla soluzione dei problemi, in quanto, questa la ragione addotta, "è l'intero mondo che ci ha isolato e non una sola parte". Gli è stato facile replicare: "Ma in questo modo lei accredita la tesi unilateralista dell'amministrazione americana". Un'obiezione che non ha avuto risposta. La tentazione di un dialogo diretto con gli Stati Uniti resta molto forte, per quel riflesso per cui si vuole affrontare il 'nemico' di petto. Non a caso il presidente iraniano ha sfidato Gorge Bush a un confronto diretto su un canale televisivo e persino uno storico oppositore come Akbar Ganji ritiene che il suo Paese avrebbe tutto da guadagnare da una trattativa con Washington. Ipotesi impossibile fino all'altro ieri, oggi declassata semplicemente a improbabile. Se le parole pesano, in diplomazia, a nessuno è sfuggito un cambio di passo nella tattica di Washington in cui avrebbe avuto tanta parte Condoleezza Rice. Bush, è vero, ha anche di recente paragonato l'Iran ad Al Qaeda, ma ha anche sostenuto di appoggiare l'iniziativa europea e di volersi sedere a un tavolo con l'Iran "alla condizione imprescindibile che rinunci al processo di arricchimento dell'uranio". Qualcosa di diverso rispetto alla negazione di qualsiasi contatto.
La partita è troppo importante per una sola strategia. In entrambi i campi. E, indubbiamente, gli equilibri sono mutati dopo il Libano. Ahmadinejad guarda a Bush e non trascura un nuovo attore come l'Italia, tanto da aver voluto vedere Romano Prodi a New York. Non gli piace il multilateralismo, ma manda il mediatore Larijani in Spagna da Zapatero, oltre che dallo stesso Prodi. Nelle sue escursioni romane Larijani ha dato l'impressione di "una brava persona, educata, che dice sempre di sì, ma non prende impegni, è sfuggevole ed è solo la faccia presentabile del regime", nel parere di chi l'ha incontrato a Palazzo Chigi.

Difficile pronosticare come andrà a finire. Il sottosegretario agli Esteri Gianni Vernetti ammette che, almeno come ipotesi "nessuna amministrazione americana può escludere a priori l'opzione di una guerra", anche se sarebbe vissuta come un incubo, dopo l'Iraq. Il passo intermedio delle sanzioni potrebbe prevedere l'espulsione dell'Iran da alcuni mercati finanziari e il congelamento dei beni. Rivendica per l'Italia un ruolo nel gruppo che ora si chiama cinque più uno (i membri con diritto di veto del Consiglio di sicurezza più la Germania) e che diventerebbe cinque più due: "Perché noi siamo disposti ad assumerci responsabilità, ad assolvere gli impegni gravosi come l'invio dei soldati in aree di crisi, ma, come dicono i cittadini di Washington 'no taxation whitout representation', vogliamo stare nel luogo dove si definiscono le strategie". Un'esigenza sottolineata anche da Sandro Gozi, parlamentare prodiano, già funzionario della Commissione europea col Professore e poi consigliere politico di Barroso: "Se siamo seduti al tavolo possiamo difendere con maggiore efficacia gli interessi delle aziende italiane. Le sanzioni non sono mai generalizzate, si decide in quali settori applicarle e se a quel tavolo sono sedute Francia e Germania, secondo e terzo partner commerciale europeo dopo l'Italia, cercheranno di agevolare le loro aziende". È stato un errore grave del governo Berlusconi non impegnarsi per entrare nel gruppo. Ora si cerca di rimediare. La Camera di commercio italo-iraniana segnala la presenza laggiù di qualche colosso (Eni, Iveco) e di una miriade di piccoli-medi imprenditori. C'è il commercio e c'è una storia politico-culturale che ci rende, agli occhi degli iraniani, affidabili. Casini ricorda i frequenti contatti del suo predecessore, Luciano Violante, col governo riformatore di Khatami, un protocollo del Parlamento italiano sulle quattro grandi culture (Egitto, Grecia, Roma, Persia), una fitta rete di relazioni che mai si è interrotta, "nemmeno quando altri chiudevano le ambasciate".

A qualunque sbocco porti questo rapporto, non si possono ignorare, e gli italiani lo sanno bene, le esigenze di Israele che si sente minacciato dal nucleare iraniano. La fiducia può nascere solo dalla trasparenza. L'Iran dice di aver bisogno del nucleare perché, per paradosso, non ha nemmeno la tecnologia per raffinare il petrolio e il governo si è trovato costretto a varare la settimana scorsa un programma di austerity per la penuria di benzina. Ma un programma'civile' di alto livello può essere convertito, in soli tre mesi, ed essere usato per scopi bellici. Nel rumore di fondo c'è sempre quel presidente che vuole cancellare Israele dalla carta geografica.