di Stefano Livadiotti
Appartamenti in centro che valgono milioni. Ma pagano pochi euro di imposte. Perché per lo Stato sono alloggi popolari. Strada per strada, la mappa delle assurdità immobiliari
Il mercato di Campo de' Fiori a Roma
Seimila e 744 euro. È la somma necessaria per comprare, a via Mario de Fiori, nel cuore di Roma, un metro quadrato di casa. Che secondo il catasto vale invece 757 euro. Meno, cioè, della stima attribuita dagli uffici statali allo stesso metro quadrato in via Raffaele Piria, zona Ponte Mammolo (809 euro): che non è nella periferia, ma addirittura nell'area suburbana della capitale che ospita il carcere di Rebibbia.

Non si tratta di un caso isolato. I dati che 'L'espresso' rivela in queste pagine, relativi a otto grandi città, dimostrano che è ormai definitivamente saltato ogni rapporto tra i valori espressi dal mercato immobiliare italiano e quelli iscritti nelle schede del catasto. Nella media nazionale, i primi sono tre volte superiori ai secondi. E più il mattone è pregiato, più la valutazione 'pubblica' è sballata al ribasso: fino a nove volte di meno. Il problema non è da poco.
Perché sono proprio le cifre del catasto, oggetto in questi giorni dell'ennesima promessa di riforma da parte del governo di turno, la base su cui si calcolano tasse come l'Irpef (o l'Ires per le persone giuridiche) e imposte indirette come l'Ici per un totale di 33 miliardi. Risultato: il sistema di imposizione immobiliare è uno dei capitoli più iniqui dell'intero universo fiscale italiano. Secondo recenti calcoli, a Milano una casa nella microzona di piazzale Lotto, semiperiferica e ad alta densità abitativa, vale il 40 per cento in meno di una equivalente nella microzona di corso Sempione, semicentrale e medio-signorile. Solo che l'imponibile fiscale della prima è più alto del 22 per cento.

La materia scotta: l'80 per cento delle famiglie, e quindi degli elettori, è proprietario di un immobile. Non è certo un caso se, alla vigilia delle ultime elezioni, Silvio Berlusconi aveva affidato le sue ultime speranze alla promessa di cancellare l'Ici. Così, il viceministro Vincenzo Visco, titolare della delega fiscale, scandisce le parole: "Non ci sarà alcuna variazione di gettito. Non è questo che ci interessa", ha ripetuto lo scorso 21 settembre, parlando della riforma del catasto: "L'obiettivo è renderlo efficiente".

L'archivio pubblico nazionale degli immobili (e dei terreni) disegna un quadro del paese vecchio di mezzo secolo. Dove su 30 milioni e 113 mila appartamenti quelli di lusso sono solo 33 mila e 856. Lo 0,11 per cento, cioè poco più di uno su mille. Quelli popolari, che secondo la classificazione effettuata nel primo dopoguerra dovrebbero essere privi di riscaldamento, sono 5 milioni e 727 mila, circa uno su cinque. E quelli ultrapopolari, privi in teoria di un bagno privato, un milione e 279 mila, uno ogni 25. Le cose, ovviamente, non stanno così.

Uno studio realizzato dall'Associazione italiane di private banking, in collaborazione con l'Università Cattolica di Milano e la Price Waterhouse Coopers, dice che 712 mila famiglie italiane vantano un patrimonio superiore al mezzo milione di euro. I loro beni, sommati tutti insieme, totalizzano 820 miliardi di euro e sono costituiti al 63 per cento di immobili: che non devono dunque essere proprio tutte bicocche.

Ancora: secondo le stime del centro studi Scenari immobiliari, circa il 10 per cento delle 7-800 mila compravendite registrate ogni anno sul mercato italiano si conclude su valori superiori al mezzo milione di euro.

Il fatto è che il censimento del patrimonio immobiliare italiano è iniziato intorno agli anni Trenta e si è concluso nel 1962 (ma neanche sulle date gli esperti sono d'accordo: il che la dice lunga). A quell'epoca a ogni appartamento è stato attribuito un valore sulla base di due parametri fondamentali. La categoria, che tiene conto della tipologia costruttiva e quindi della dotazione (riscaldamento, servizi sanitari, ascensore). E la classe, che coincide sostanzialmente con la zona. Da quel momento nessuno ci ha più rimesso mano. Ma in 45 anni il mercato è completamente cambiato.

Se prima la gente scappava dai fatiscenti palazzi di centri storici sempre più degradati, da tempo è in corso una migrazione inversa. Anche perché la gran parte degli immobili nel cuore delle città è stata ristrutturata. Ma quasi sempre chi ha ammodernato il proprio stabile, fornendolo per esempio dell'ascensore, s'è ben guardato dal raccontarlo agli uffici competenti, proprio per non rischiare di dover pagare più tasse. E anche le variazioni regolarmente segnalate sono spesso rimaste in fondo ai cassetti: nel 2001, quando l'Agenzia del territorio del ministero dell'Economia ha preso in mano il polveroso catasto, le pratiche arretrate (oggi peraltro smaltite) erano 14 milioni.
Un'indagine realizzata all'inizio del 2005 rivelava come il 20 per cento delle abitazioni romane risultasse catalogato come popolare. Con un picco nel centro storico della città, dove si arrivava al 55 ("Case di modesto livello, con dotazione limitata di impianti quantunque indispensabili", recitava in burocratese una nota). Tra centro, Aventino, Trastevere e Borgo Pio lo studio contava solo 300 appartamenti di lusso e 3 mila ultrapopolari ("Con assenza o carenza di servizi igienici").

'L'espresso' ha aggiornato il mini-censimento, prendendo in considerazione le sole abitazioni di alcuni indirizzi di prestigio a Roma e Milano. Ma i risultati non sono cambiati. Nella Capitale, in via Margutta, che con i suoi 12 mila euro al metro quadrato è al top del mercato, non c'è un solo immobile di lusso. In compenso, un terzo esatto delle case è accatastato come popolare, quindi senza riscaldamento (dev'essere che i milionari in euro che le abitano svernano tutti alle Maldive).
Idem a piazza di Spagna, dove per comprare un metro quadrato ci vogliono 10 mila euro: le abitazioni di lusso sono il 3 per cento, contro un quasi 24 per cento tra popolari e ultrapopolari. E a via Condotti: nella strada delle boutique romane c'è un 3 per cento abbondante di case dove bisogna sforzarsi di immaginare che alla mattina gli inquilini in vestaglia di seta si mettano disciplinatamente in fila indiana per lavarsi i denti. A Milano non va in modo poi troppo diverso, se gli appartamenti che affacciano su piazza Duomo, dove un metro quadrato vale 9 mila euro, sono per quasi un quarto popolari.

Il catasto è un baraccone che costa 563 milioni di euro l'anno, stipendia 11 mila dipendenti e dovrebbe tenere il conto di poco meno di 53 milioni di unità immobiliari urbane (compresi uffici, negozi, cantine e quant'altro). Di una sua riforma si parla almeno dal 1978. Trent'anni di parole in libertà. L'unico intervento è stato fatto nel 1990, quando sono stati rivisti al rialzo i valori. Senza però rimodellare il sistema, che continua per esempio a valutare le case in base al numero di vani e non alla metratura; alla presenza dei bagni e non degli impianti di condizionamento o del cablaggio dell'area.

"La realizzazione di un moderno catasto richiede un lasso di tempo pari o superiore a una legislatura", ha scritto Jacopo Milena sul sito Lavoce.info, annotando: "Senza questo presupposto, le azioni di contrasto dell'evasione rischiano di divenire comunque impervie". Il tempo dunque stringe. Tecnicamente, l'operazione è complessa, ma pienamente fattibile. La maggior trasparenza sulle quotazioni immobiliari assicurata dalle norme del pacchetto-Bersani sui contratti di compravendita dovrebbe fornire, nell'arco di un paio di anni, una base statistica sufficiente ad aggiornare i valori catastali. A questa operazione, da attuare a livello centrale, dovrebbe affiancarsi il trasferimento della gestione del catasto ai comuni, gli unici in grado di verificare le variazioni del patrimonio immobiliare.

A parole, l'associazione dei comuni addirittura rivendica le nuove competenze, la cui attribuzione continua a slittare da nove anni. Ma nei fatti, alla vigilia della nuova scadenza fissata al febbraio del 2007, i sindaci nicchiano. Non hanno alcuna fretta di farsi carico dei dipendenti (pure recalcitranti) che il catasto dovrebbe necessariamente trasferire ai loro libri paga. Soprattutto, non vogliono assumersi l'onere politico di un'operazione che i proprietari di casa vedrebbero inevitabilmente come l'anticamera di un rialzo della tassazione immobiliare. S'è visto con la legge finanziaria del 2005, che consentiva ai comuni di chiedere un passaggio alla categoria catastale superiore per le abitazioni delle zone dove il divario tra valori di mercato e catastali fosse risultato particolarmente elevato. Finora l'hanno chiesto nove comuni. Su 8 mila.