di Ignazio Marino
Permettere ai malati di scegliere: l'autore della proposta dell'Unione spiega come arrivare a una legge condivisa da laici e cattolici
Otto disegni di legge presentati al Senato, 37 esperti selezionati da maggioranza e opposizione, l'avvio delle audizioni già fissato. Si profila il lavoro che attende la commissione Igiene e sanità del Senato per arrivare in tempi rapidi a una proposta di legge il più possibile condivisa, da presentare al voto del Parlamento. L'iter per dare anche al nostro Paese una legge sul testamento biologico e contro il rischio di accanimento terapeutico era già stato avviato prima dell'estate, ma ora, con il drammatico appello di Piergiorgio Welby e l'invito del presidente della Repubblica, la questione viene percepita come urgente. Non si tratta solo di approvare una legge, ma di assolvere a un obbligo morale, recuperando il grave ritardo del nostro ordinamento sulla materia.

Il primo concetto da chiarire, per non incorrere in facili equivoci, è che in nessuna proposta attualmente in discussione si parla di eutanasia. Questo termine, che suscita forti contrasti ogni volta che viene pronunciato, significa letteralmente porre fine alla vita di una persona, gravemente ammalata e incapace di sopportare oltre la sofferenza, attraverso la somministrazione di sostanze velenose che portano alla cosiddetta dolce morte.

Messo da parte questo argomento, il diritto che si vuole riconoscere è invece quello di permettere a ogni persona di indicare le cure e i trattamenti che ritiene accettabili per se stesso, se un giorno diventerà incapace di intendere e di volere. In altre parole, il diritto di richiedere ai medici la sospensione o la non attivazione di procedure e terapie anche nei casi più estremi e tragici di sostegno vitale, un diritto che oggi ogni paziente consapevole esercita attraverso il meccanismo del consenso informato, accettato da tutti e obbligatorio per legge. Per essere ancora più chiari, le direttive anticipate di vita, meglio conosciute come testamento biologico, e il rifiuto dell'accanimento terapeutico, altro non sono che un allargamento dello spazio di libertà individuale già sancito nel nostro Paese. Facciamo un esempio concreto: ogni volta che una persona viene ricoverata per un esame diagnostico o un intervento chirurgico, un operatore sanitario ha l'obbligo di descrivergli le caratteristiche dell'operazione, le possibili conseguenze, i rischi. Solo dopo che il paziente ha compreso e accettato di sottoporsi alla terapia, firmando il modulo del consenso informato, il medico potrà procedere.

Questo stesso diritto non è oggi riconosciuto alle persone che si trovano per esempio in coma oppure in stato vegetativo permanente, e che non possono esprimere personalmente le proprie volontà. Di qui l'esigenza di poter indicare prima che sia impossibile, che cosa si ritiene accettabile e che cosa no, e ribadire in questo modo l'autodeterminazione dell'individuo rispetto alla propria vita.

Pensiamo per esempio al dramma di Eluana Englaro, mantenuta in stato vegetativo permanente dal 1992, nonostante i ripetuti sforzi della famiglia per fare rimuovere il tubo dell'alimentazione e sospendere tutte le altre terapie, non giustificabili data l'impossibilità di guarigione o anche solo di un minimo miglioramento della ragazza. Ma pensiamo anche agli altri 1.500 corpi che, come lei, sono stati abbandonati da quello che possiamo definire vita, con funzioni vitali prolungate artificialmente solo attraverso l'ausilio di macchinari. Questo si chiama accanimento terapeutico, eppure se oggi un medico in Italia decidesse di staccare la spina, correrebbe il rischio di essere accusato di omicidio volontario. Di fronte a tutto questo non possiamo negare la necessità di una legge.

Anche la Chiesa cattolica concorda su questi principi e nel suo catechismo infatti scrive che: "L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente".
Ritornando alla nostra legge, credo che chi si esprimerà contro, e lo farà solo per logiche di schieramento partitico, certo non potrà nascondersi dietro al debole paravento della difesa della vita. Nessuno infatti può affermare, se non in mala fede e per meri fini ideologici, che l'accanimento terapeutico significa difesa della vita! Sarà invece inevitabile che, pur partendo da un presupposto condiviso a larga maggioranza, ci si confronti su alcuni punti che richiederanno un rigoroso e severo dibattito. Penso innanzitutto all'introduzione del fiduciario, una figura immaginata per interpretare le volontà del paziente dato che nessun documento, anche il più preciso, potrà mai elencare tutte le possibili circostanze in cui una persona si troverà. Il fiduciario dovrebbe essere scelto perché ha condiviso momenti, pensieri e idee con il paziente e quindi in grado di capire se in quella determinata circostanza egli avrebbe voluto essere sottoposto alle terapie oppure no.

Il secondo punto critico riguarda l'eventuale discrepanza tra l'interpretazione del testamento biologico da parte della famiglia, o del fiduciario, e il medico. Secondo la proposta di cui io sono tra i firmatari, il riferimento dovrebbe essere il comitato etico dell'ospedale, chiamato a interpretare la soluzione più vicina a quella espressa nel testamento biologico. Forse non è questa la soluzione ottimale, ma ritengo che la decisione finale non debba essere affidata al medico curante, poiché si vanificherebbe la volontà dell'individuo che ha firmato il testamento .

Il terzo aspetto, probabilmente il più delicato, riguarda la decisione di interrompere, assieme a tutte le altre terapie, anche l'idratazione e la nutrizione passiva di un paziente che non è più in grado di svolgere queste funzioni. Chiunque abbia esperienza di malati che conducono un'esistenza dipendente dai macchinari senza speranza di ripresa, sa bene che la tecnologia che viene utilizzata è fuori dall'ordinario. La sospensione delle terapie necessarie per mantenere un paziente libero da infezioni, da embolie polmonari, da decubiti, da alterazioni metaboliche porta inevitabilmente alla fine di quella esistenza e, quindi, il mantenimento della nutrizione artificiale non sarebbe di utilità per il malato.

Sono temi complessi che ci impegneranno nei prossimi mesi, mi auguro in un clima costruttivo perché l'obiettivo è dare a ogni cittadino la possibilità di finire la propria esistenza con la dignità che ognuno considera appropriata per se stesso.