di Massimo Riva
Marco Tronchetti Provera conosceva o ignorava l'operato di Tavaroli, Cipriani e soci? Nella prima ipotesi c'è poco da dire, trattandosi di un reato. Nella seconda, la sua figura di imprenditore ne esce comunque sminuita
Luca Cordero di Montezemolo
D'accordo che, come s'usa dire, cane non mangia cane, ma forse i vertici di Confindustria avrebbero potuto dimostrarsi un poco più schiettamente cannibali nella vicenda Telecom. Il presidente Luca Cordero di Montezemolo ha scelto una strada tangenziale rispetto al cuore dei problemi, dichiarandosi "desolato" di dover "registrare ancora un'invadenza del pubblico in economia". Ed ha magari anche ragione perché la 'gaffe' di Palazzo Chigi con il cosiddetto 'progetto Rovati' per un ritorno in mano pubblica della rete telefonica è davvero un episodio desolante. Ma siamo franchi: è questa, solo questa, la principale ragione dello scandalo esploso dentro e intorno al colosso delle telecomunicazioni?

In realtà, il caso Rovati è stato perfino un inatteso colpo di fortuna per quanti desideravano distogliere l'attenzione generale dai veri guai emersi, da un lato, nell'azionariato Telecom e, dall'altro lato, nella gestione di un'azienda che ha quanto meno tollerato al suo interno l'attività di una rete di malaffare dedita niente meno che a intercettazioni illegali di massa. Ma non è che ci si può riparare all'infinito dietro lo sfondone di Palazzo Chigi per far dimenticare: 1) che i problemi di Telecom non riguardano l'azienda in se stessa, ma l'esposizione debitoria della sua fragilissima catena azionaria di controllo, come ha detto ora anche il neopresidente Guido Rossi; 2) che la svolta strategica a 180 gradi in tema di Tim e di rete puzzava lontano un miglio da espediente per soccorrere le difficoltà finanziarie di un singolo azionista; 3) che l'accidente delle intercettazioni denuncia - nella migliore delle ipotesi - una conduzione aziendale di una leggerezza e di una disinvoltura che superano ogni immaginazione di sciatteria e inettitudine gestionale.

Al riguardo i casi sono soltanto due: il presidente Marco Tronchetti Provera conosceva ovvero ignorava l'operato dei vari Tavaroli, Cipriani e soci. Nella prima ipotesi (categoricamente smentita dall'interessato) ci sarebbe poco da dire, trattandosi di un reato di particolare gravità. Ma anche nella seconda non è che l'ex-presidente di Telecom possa uscirne a testa alta: pur scongiurato ogni rischio penale, la sua figura di imprenditore risulterebbe comunque seriamente azzoppata. Si può guidare un'azienda senza accorgersi per anni che i responsabili della sicurezza interna si fanno gli affari loro e quali affari?

Naturalmente, è anche comprensibile che ai piani alti di Confindustria vi sia un notevole imbarazzo dato che Tronchetti è uno dei vice-presidenti dell'organizzazione. Ma spingersi fino a esprimergli "la più sincera solidarietà" - come ha fatto il suo collega Andrea Pininfarina - appare davvero troppo. I sentimenti di amicizia personale sono cose bellissime che onorano chi li manifesta, ma ai ruoli di vertice competono anche e soprattutto doveri istituzionali.

Quale immagina proietta di sé una Confindustria che, di fronte a vicende così inquietanti, sembra voler scegliere la strada dell'arroccamento a difesa anche dell'indifendibile? Quale credibilità potrà avere nel porsi come un fattore di risanamento etico, oltre che economico, del paese e del mercato? Sono domande che il presidente Montezemolo e colleghi dovrebbero porsi.