di Paola Emilia Cicerone
Mangiare poco, solo cibi magri, ammazzarsi in palestra. Ne vale la pena? La scienza mette in dubbio i comandamenti del benessere
Una vita lunga, sana e infelice. Potrebbe andare così, se diamo ascolto ai mille allarmi che ci arrivano da riviste mediche e società scientifiche. Un futuro fatto di miniporzioni e spuntini low cal, cibi a basso contenuto di grassi, ma addizionati di antiossidanti, steroli e omega 3. Eliminando l'alcol - se si esclude una minima quantità di vino rosso, perché ricco di antiossidanti - e dedicando il tempo libero a jogging, spinning, Gag, e altre attività destinate a rimodellare il corpo e allontanare il rischio infarto. Ne vale la pena? Qualcuno comincia a ribellarsi. Come il 'New York Times', che ha messo in prima pagina l'ultimo diktat del 'Journal of the American Medical Association', che propone come ricetta di lunga vita una drastica restrizione calorica, "arrivando a suggerire", si scandalizza il Nyt, "un consumo di 890 calorie al giorno, meno della metà di quanto consumi a cena un americano medio": se queste sono le condizioni per arrivare a 90 anni, non sarà meglio accontentarsi di 85?

Il paludato 'Times', nella New York delle mode salutistiche più oltranziste, delle dame 'skin or die', dei templi della fitness più avanzati del mondo, sembra con ciò osare l'inosabile: mandare al diavolo i diktat allungavita. Cosa che già, in Inghilterra, fa la rivista 'Spiked', che inneggia apertamente alle 'cattive abitudini' e denuncia la proposta di etichettare ogni alimento con un semaforo multicolore che ne segnali il contenuto di zuccheri, sale e grassi saturi, come un modo "per accrescere le nevrosi nei confronti del cibo". Tra i collaboratori di punta della rivista spicca Michael Fitzpatrick, autore di 'The Tyranny of Health', critica a una classe medica che "non si contenta più di curare i malati ma vuole imporre alla società uno stile di vita", esagerando il rischio di abitudini alimetari come il consumo di carne rossa o bibite gassate. E ignorando un dato importante: almeno nel mondo occidentale, uomini e donne non sono mai vissuti così a lungo e così in salute. "Perché non diciamo che i nostri bambini mangiano meglio che in passato, nonostante il junk food e le bibite gassate?", insistono gli autori di 'Spiked'. E anche in Italia, "corriamo il rischio di vivere da malati per morire sani: siamo più in salute che mai, ma anche più preoccupati per la nostra salute", denuncia Giovanni Caputo, psichiatra ed esperto di disturbi del comportamento alimentare.

Succede così che gli umani sentano il bisogno di un libretto di istruzioni per alimentarsi in modo corretto. "I neonati sono capaci di autoregolarsi, sanno da soli quando hanno mangiato abbastanza. Ma è un istinto che perdiamo da grandi, soffocato dal confronto con gli altri e dai messaggi che ci arrivano da media e pubblicità", spiega Patrizia Bollo, dietista e docente all'Università di Milano, autrice del recentissimo 'Diet-etica. Manuale di sopravvivenza nella giungla delle diete' (Ponte alle Grazie, 2006).

Proprio la dieta, una dieta qualunque, non importa quanto sbilanciata o irrazionale, sembra alla maggior parte degli italiani la scorciatoia ideale per risolvere i propri problemi di immagine. "Mettersi a dieta sembra facile, e infatti", ironizza Caputo: "Quasi tutti prima o dopo ci provano. Che ottengano risultati duraturi è un'altra faccenda". Chi scherza con un processo complesso come la nutrizione rischia di pagarla cara, con squilibri metabolici e altri disturbi. Come i danni a fegato e reni o le carenze nutrizionali che possono derivare dalle tanto osannate diete a basso tenore di carboidrati, che vietano una fetta di pane, ma sdoganano i grassi animali. "Ci sono diete nate per i malati, come la Ornish, un regime poverissimo pensato per cardiopatici obesi, o l'Indice glicemico che valuta l'impatto sulla glicemia degli zuccheri contenuti negli alimenti e sta alla base di diete popolarissime come la Zona, ma demonizza alimenti come le carote, perché i pochi carboidrati che contengono hanno un indice glicemico elevato", prosegue Bollo.

Eppure uno studio realizzato in Italia dall'Università del Texas mostra che anche persone obese possono essere in buona salute. E già nel 1998 un editoriale del 'New England Journal of Medicine' avvertiva che, finché non disporremo di informazioni più precise sui pericoli generati dal sovrappeso e sul rapporto rischi-benefici delle diete dimagranti, dobbiamo ricordare che la cura per l'obesità può essere peggiore del male.
Per chi non è gravemente obeso, poi, forse il gioco non vale la candela: è emerso di recente da una serie di studi importanti che una dieta povera di grassi e ricca di fibre non garantisce protezione nei confronti di tumori del colon e del seno, infarti o ictus."La maggior parte delle ricerche indica che l'aspettativa di vita maggiore coincide con un peso normale, in genere corrispondente all'altezza meno 100. Mentre sia il sovrappeso sia la magrezza corrispondono ad aspettative di vita sensibilmente più limitate", spiega Caputo. Gli allarmi relativi ai pericoli dell'eccessiva magrezza, però, restano inascoltati: "Il problema", prosegue lo psichiatra: È che i messaggi che arrivano dalla scienza si prestano a essere manipolati dal mercato che ne coglie, e ne sfrutta, i toni più suggestivi, cancellando le sfumature di cui è fatta la ricerca". È vero che alcune specialità mediche in cui è più facile valutare rischi e benefici, come la cardiologia o l'ortopedia, promuovono senza mezzi termini la magrezza, "ma sarebbe sbagliato tradurre in assoluti queste indicazioni, e in prescrizioni cliniche dati che hanno solo valore statistico", commenta Caputo: "Se lo facciamo è anche perché in un mondo privo di regole ci aggrappiamo alle indicazioni che arrivano dalla scienza". Traducendole in certezze adamantine da trangugiare senza un minimo di spirito critico. Soprattutto se fanno risuonare note che ci sono familiari. Come la tendenza manichea a dividere i cibi in buoni e cattivi: "Una divisione che non ha senso: un alimento in quanto tale non può essere nocivo, per definizione", dice Caputo: "Oggi sappiamo che l'ideale è una dieta il più possibile variata. Il rischio però è che questi messaggi, oltre a generare stress, influenzino i soggetti più fragili, portandoli a sviluppare fobie verso alimenti sentiti come pericolosi o a cercare ossessivamente ciò che fa bene".

È ancora il nostro bisogno di regole a farci contare le calorie a ogni pasto e a imporci la mozzarella che pure non è meno calorica del camembert, l'olio di semi 'dietetico', le mele 'che fanno dimagrire', quando ci sono frutti più gustosi e meno zuccherini. "È la stessa logica che ci fa preferire barrette rompifame insapori e succhi alla frutta fresca", osserva Bollo: "Pensiamo che solo punendoci otterremo risultati, che una dieta felice non possa essere sana". E cerchiamo di disintossicarci ingurgitando beveroni improbabili. In realtà non esistono alimenti disintossicanti, e il nostro organismo, per fortuna, è perfettamente in grado di eliminare le scorie tossiche. Così come un'alimentazione equilibrata non ha bisogno di alimenti arricchiti con vitamine, acidi grassi, oligominerali, tanto che i nutrizionisti mettono in guardia contro il consumo indiscriminato di integratori.

Un atteggiamento equilibrato sembra roba da perdenti ai forzati del wellness. Gli stessi che traducono il sacrosanto invito a fare attività fisica, iscrivendosi al corso più innovativo disponibile in palestra. O infilandosi un completo tecnico e slanciandosi per i viali della città. Incuranti di studi come quello realizzato dal Dipartimento di Scienze della salute dell'Università di Genova, che mostra come allenarsi in città aumenti l'intossicazione da biossido d'azoto, a rischio di danneggiare e irritare il tessuto polmonare, oltre ad abbassarne le difese immunitarie.

Succede quando la voglia di sacrificio prevale sul buonsenso:"Ci sono studi serissimi che confermano l'efficacia preventiva dell'attività fisica: ma si parla di un'attività regolare e sottomassimale, non di sforzi estremi", spiega Stefano Aglieri, specialista in medicina dello sport. Per esempio, 4 o 5 chilometri camminati di buon passo, seguendo le indicazioni delle società internazionali di cardiologia. Uscire dalla palestra con il fiato corto e le articolazioni doloranti può farci sentire più virtuosi, ma non serve a niente. Un ampio studio longitudinale pubblicato nel 2000 sull''American Journal of Epidemiology' dai Cdc di Atlanta mostra che camminare è la forma di allenamento che garantisce i risultati migliori con il minor rischio di traumi all'apparato muscolo scheletrico. Un recente studio dell'Harvard Medical School segnala addirittura che per donne anziane un corso di Tai Chi, la tranquilla ginnastica cinese, garantisce lo stesso allenamento cardiovascolare di una camminata di buon passo, e ha un effetto migliore sulle articolazioni. Che sono le vittime più frequenti di chi corre in palestra per sfoggiare il costume da bagno o vincere il campionato aziendale. "A rischio di traumi o incidenti peggiori sono i guerrieri del week end, che si buttano in attività impegnative senza la dovuta preparazione, anche se sono sedentari e sovrappeso", spiega Marcello Faina, responsabile dell'Unità medicina di Scienza dello sport dell'Istituto di medicina e scienza dello sport del Coni: "Dimenticando che, a differenza delle automobili moderne, il nostro organismo ha bisogno di un bel rodaggio: perché tende a economizzare, e non ci dota di masse muscolari in grado di sopportare sforzi se passiamo la vita tra scrivania e poltrona". Ecco perché chi vuole intraprendere un'attività sportiva deve prepararsi con cura e sottoporsi a un adeguato check up, altrimenti rischia di ritrovarsi un cuore meno resistente, muscoli impreparati allo sforzo e tendini poco elastici. Con le conseguenze del caso: "Un'attività fisica vigorosa ha un effetto protettivo nei confronti di eventi cardiovascolari acuti, ma può anche contribuire a provocarli", avverte Barry Franklin, past president dell'American College of Sports Medicine.
Arrivare al limite fa male, si tratti di vincere una partita di calcetto o di non sfigurare con le amiche in palestra. Prosegue Faina: "Il rischio sta proprio nelle palestre affollate, dove si viene seguiti meno e dove il tentativo di proporre esercizi divertenti e variati può far passare in secondo piano la necessità di controllarne gli effetti". Il bello è che tanti sacrifici, nel migliore dei casi, non servono a niente: "Quella che funziona per rimettersi in forma è l'attività sottomassimale, un esercizio moderato e prolungato nel tempo", spiega Aglieri. Solo così si attiva il metabolismo aerobico che facilita il consumo di grassi e aiuta a bruciare calorie, oltre ad allenare gradualmente muscoli, cuore e polmoni. "Mentre la cosiddetta aerobica, intesa come ginnastica, lo spinning e altre attività che stressano il sistema cardiovascolare non servono a dimagrire", chiarisce Aglieri: le poche calorie consumate si recuperano velocemente con il piatto di pasta che ci concediamo a cuor leggero perché abbiamo fatto ginnastica.

"Il guaio è che sempre più spesso perdiamo la dimensione ludica dell'attività fisica: facciamo ginnastica o sport per vivere più a lungo, o per migliorare il nostro aspetto fisico e non per sentirci meglio", annota Caputo. Il rischio è che l'attività fisica diventi una sorta di droga. In una visione deformata del wellness, "che non significa solo forma estetica, ma un complessivo stato di benessere fisico e mentale", conclude Faina. Per ottenere il quale è indispensabile imparare ad ascoltare, con la necessaria indulgenza, il proprio corpo: ma ai guerrieri del salutismo, che si sacrificano per conquistare una settimana in più di vita - durante la quale, come sostiene Woody Allen, forse pioverà sempre - questo non interessa.

O mi stanco o son depresso

Abbandonare all'improvviso un'intensa attività fisica può portare alla depressione. Il dato emerge da uno studio della University of the Health Sciences di Bethesda, Maryland, pubblicato su 'Psychosomatic Medicine'. Che ha coinvolto individui adulti abituati a fare regolarmente sport tre o più volte la settimana. Si è visto che quelli di loro cui è stato chiesto, a fini sperimentali, di abbandonare improvvisamente gli allenamenti hanno sviluppato in meno di due settimane stanchezza persistente, e altri malesseri che preludono a una lieve forma depressiva. E come se non bastasse, a soffrire di più sono stati proprio i soggetti che avevano ottenuto i risultati migliori in termini di forma fisica.

"Questi dati potrebbero spiegare i disturbi dell'umore che spesso colpiscono chi è costretto a rinunciare temporaneamente all'attività fisica, in seguito a traumi o altri impegni", spiega la responsabile della ricerca, Ali A. Berlin. Anche se, in generale, sono proprio le persone sedentarie a soffrire più frequentemente di disturbi depressivi.