di Antonio Carlucci
La minaccia dell'Iran. Il test della Corea del Nord. Il ricatto nucleare è la nuova arma con cui le diplomazie si devono confrontare
Il leader nordcoreano Kim Jong II
(al centro)
E otto. Con il test sotterraneo deciso nel cuore delle montagne che contornano il villaggio di Kilju, la Corea del Nord è entrata come ottava nel club dei paesi che ufficialmente dichiarano di possedere la bomba atomica. È un ingresso non desiderato, quello del regime di Kim Jong Il, un dittatore che sta al vertice di una piramide dove una cricca familiare conduce una vita sfarzosa, una enclave militare gode di una parte dei frutti di questo potere per proteggerlo e 23 milioni di uomini, donne, vecchi e bambini vivono in miseria e senza diritti.

Con l'esplosione di lunedì 9 ottobre, Kim Jong Il conclude un percorso politico cominciato quasi 30 anni fa dal padre Kim Il Sung. Allora il mondo era assai diverso, c'era ancora la Guerra Fredda, la Cina non era quel bolide economico e politico lanciato a tutta velocità da una miscela di comunismo e capitalismo e la Russia non era diventata una autocrazia guidata dagli ex del Kgb sovietico. L'esperimento nordcoreano arriva in un mondo dai molteplici scenari di crisi. E dove la voglia di bomba atomica non si è manifestata solo a casa di un dittatore paranoico e stalinista.

C'è anche l'Iran islamico e sciita di Mahmoud Ahmadinejad che manifesta apertamente, e con atti concreti, uno sfrenato desiderio nucleare. Il presidente dell'Iran ha ingaggiato un duro braccio di ferro con la comunità internazionale, fino a ignorare una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che imponeva a Teheran di sospendere entro il 31 agosto scorso ogni processo di arricchimento dell'uranio. Sembra ormai che il Trattato di non proliferazione nucleare, con le sue 188 firme, sia un quadro ingiallito chiuso in uno stanzino polveroso. Perché altri paesi hanno manifestato negli ultimi mesi interesse per il nucleare: sia pure riferendosi pudicamente al solo uso civile, se ne discute in Egitto come in Brasile. Mentre il leader libico Gheddafi ha chiesto a voce alta: "E perché mai la Libia non dovrebbe possedere tecnologia nucleare?"

Sono storie assai diverse quella della Corea del Nord e quella dell'Iran. Pyongyang ha fatto del possesso della bomba atomica un elemento strategico della sua politica nei confronti dell'Occidente e dei vicini (Russia, Cina, Corea del Sud e Giappone); Teheran sembra ancora oggi usare la minaccia del nucleare militare come una scelta tattica. L'obiettivo di Kim Jong Il è sempre stato di ottenere il massimo di aiuti economici dal resto del mondo, non per il suo paese, ma solo per se stesso e per coloro che lo sostengono, militari in prima fila ("È un evento storico che ha incoraggiato e soddisfatto enormemente l'esercito coreano e le persone che sperano da tempo di acquisire forza e autosufficienza per la difesa del paese", recita il comunicato ufficiale della Corea del Nord). Le mosse di Teheran sembrano giocare tutte all'interno dello scenario che dal Medio Oriente si estende fino all'Afghanistan. Mahmoud Ahmadinejad ha sfruttato la lunga serie di errori di Washington in Iraq per allungare la sua presenza nel paese ex nemico, si è costruito un confine artificiale con Israele armando e finanziando Hezbollah in Libano, ha giocato con l'alto prezzo del petrolio paventando rallentamenti nelle forniture, ha cominciato la corsa la nucleare. Tutto per conquistare la leadership regionale e vedersela riconosciuta.

La voglia di bomba atomica fu manifestata apertamente dalla Corea del Nord nel 1993 con l'annuncio del ritiro dal Trattato di proliferazione. L'allora dittatore Kim Il Sung, cui piaceva tanto l'appellativo di 'grande leader' (il figlio ha scelto per se stesso il più gentile 'caro leader'), fece sapere di aver accumulato le barre di uranio di una centrale civile ormai spenta con lo scopo di dotarsi di un ordigno nucleare. Il ricatto funzionò, e ha continuato a portare i risultati per lungo tempo. Nel 1994, Bill Clinton, appena eletto presidente degli Stati Uniti, scelse la via del dialogo diretto. Spedì a Pyongyang l'ex presidente Jimmy Carter: fu firmato il cosiddetto 'Agreed Framework'. Il regime comunista si impegnava a mettere da parte i programmi nucleari in cambio di consistenti aiuti economici in termini di petrolio, gas, cibo.
Subito dopo la firma dell'accordo, Kim Il Sung morì. E lo scettro del potere passò al figlio (oggi ha 64 anni) che dal genitore aveva imparato le cose essenziali per essere un dittatore modello: usare i militari per mantenere il dominio assoluto, facendo loro condividere pezzetti di potere; eliminare qualsiasi oppositore; giocare spregiudicatamente nell'area asiatica per vivere di rendita e di aiuti esterni visto che anno dopo anno le folli spese militari e l'economia pianificata hanno fatto della Corea del Nord un grande lager.

Naturalmente il 'caro leader' non ha mai dimenticato di far paura al mondo con l'atomica, mentre nel privato ha giocato e gioca con le Mercedes, di cui possiede decine di modelli, e con il cinema, sua grande passione che lo ha spinto a ordinare ai servizi segreti il rapimento di un regista sudcoreano per obbligarlo a impiantare una Hollywood in salsa nordcoreana a Pyongyang. Nel 1999 il dittatore è riuscito a fare il salto tecnologico verso la bomba. Lo si è saputo solo dieci giorni fa quando è apparsa nelle librerie americane l'autobiografia del presidente pakistano Parvez Musharraf 'In the Line of Fire' (sulla linea del fuoco): l'ex generale oggi al potere a Islamabad (il suo paese possiede la bomba atomica e da decenni in quell'area si alternano momenti di grave tensione a periodi di distensione con l'India che pure possiede ordigni nucleari) ha raccontato di essere sicuro che, appunto nel 1999, una delegazione della Corea del Nord, teoricamente formata di ingegneri missilistici, nascondeva al suo interno alcuni tecnici nucleari che furono messi in grado di costruire e far funzionare le centrifughe necessarie ad arricchire l'uranio. Pachistano è infatti l'ingegnere Abdul Qadeer Khan che era a capo dei progetti del suo paese e che si è scoperto aver offerto e venduto segreti atomici a molti paesi, tra cui anche l'Iran.

Da quel momento Kim Jong Il ha utilizzato la paura della bomba ogni volta che ha voluto. Soprattutto negli ultimi quattro anni. A dicembre del 2002 ha espulso dal Paese i controllori dell'Agenzia atomica. Pochi mesi dopo, pressato da una terribile carestia, riaprì le porte: ad agosto del 2003 accettò trattative a sei in Cina sul nucleare (da una parte Pyongyang, dall'altra Usa, Cina, Giappone Russia, Corea del Sud) e a dicembre accolse tecnici atomici Usa e imprenditori di Seul. Tutto il 2004 fu segnato dalle trattative. Quindi un nuovo irrigidimento, fino all'annuncio che la bomba era pronta (febbraio 2005) e a un test di missili balistici (luglio 2006).

L'epilogo è arrivato il 9 ottobre. E apre scenari inquietanti. Il più catastrofico è quello del delirio di onnipotenza del dittatore che mette nelle mani dei terroristi alcuni giocattoli nucleari. In ogni caso c'è da capire al più presto se l'esplosione sotterranea sia un momento di forza del dittatore o un segno di debolezza. Poi, bisognerà attendere le mosse non solo della Cina e della Russia, ma anche di Giappone e Corea del Sud: all'orizzonte potrebbe apparire un ipotetica, e molto pericolosa, corsa al riarmo dell'intera area (in Corea del Sud e in Giappone sono stanziati decine di migliaia di soldati Usa), a cominciare dal desiderio di Tokyo di possedere la bomba atomica. E infine, è necessario guardare l'America di George W. Bush che in in questi sei anni di presidenza ha ballato tra l'isolamento, il colloquio diretto e le minacce di ritorsioni non solo economiche, senza mai decidersi quale fosse la strada migliore.

Non sarà facile gestire la crisi nordcoreana essendo aperta contemporaneamente quella del nucleare iraniano. Ahmadinejad, un ingegnere civile di 50 anni che si è formato alla politica come sindaco di Teheran, ha cinguettato da lontano con Kim Jong Il, rendendo pubblica una lettera di supporto del dittatore nordcoreano sulle voglie atomiche di Teheran e utilizza platealmente la questione atomica per galvanizzare le masse iraniane contro i nemici esterni, tappando così la bocca a chi vuole ricordargli i fallimenti in politica interna. A cominciare dalle promesse di una redistribuzione dei profitti del petrolio. Da due anni Ahmadinejad dà velocità alla macchina per la ricerca nucleare e l'arricchimento dell'uranio o la rallenta in funzione degli obiettivi contingenti: per esempio, a fine agosto, scadenza dell'ultimatum del Consiglio di sicurezza, ha inaugurato uno stabilimento per il trattamento dell'acqua pesante e subito dopo ha dichiarato che è sempre tempo di trattative per allontanare lo spettro delle sanzioni.
C'è qualcosa che oggi rende assai diverse le due vicende: mentre a Pyongyang non si è mai registrata alcuna voce dissidente, nelle ultime settimane in Iran si è aperta una battaglia nella quale viene utilizzato il padre della Repubblica islamica, l'ayatollah Khomeini. Akbar Hashemi Rafsanjani, ex presidente della Repubblica assai vicino a Khomeini e che non si è mai schierato né con i riformisti né con i conservatori, ha reso pubbliche due lettere fino a oggi sconosciute per colpire Ahmadinejad attraverso Mohsen Resai, un leader dei pasdaran. La prima porta la firma di Khomeini il quale scrive: "Non è possibile combattere contro tutto il mondo e allo stesso tempo far progredire il paese". La seconda è una missiva di Resai indirizzata a Khomeini che denunciava la carenza di materiale bellico e invitava il leader a cominciare una politica di armamenti.

Adesso la parola è alle Nazioni Unite e al Consiglio di sicurezza. Tutti premono per fare qualcosa. Cosa esattamente, oltre alle sanzioni che non sembrano funzionare più di tanto, è difficile dirlo. E a confrontarsi con la voglia di atomica entro poche settimane sarà chiamato il nuovo segretario generale dell'Onu designato, il sudcoreano Ban Ki-moon. Un inizio tutto in salita.

Un club
molto esplosivo

I paesi che possono avere l'atomica e le norme e gli organismi che disciplinano la delicata materia

Chi ce l'ha di diritto
I cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza, i vincitori della Seconda guerra mondiale, hanno l'atomica: Russia (ex Urss) e Stati Uniti (con oltre 5 mila testate attive), Francia (350) , Regno Unito (200) e Repubblica popolare cinese (130).

Chi ce l'ha e non potrebbe
India, Pakistan (con circa una ottantina di testate attive ciascuno) e Corea del Nord. Non hanno mai aderito al Tnp, il Trattato di non proliferazione (a parte Pyongyang che ne è però uscita nel 2003), ma hanno tutti e tre condotto test.

Chi forse ce l'ha
Ufficialmente Israele non ha l'atomica anche se è sospettata di possedere tra le 70 e le 200 testate nucleari.

Chi la vorrebbe avere
L'Iran ufficialmente sostiene di volere soltanto creare una capacità atomica a scopo civile, ma è accusata di voler pianificare la bomba. L'Arabia Saudita è sospettata di voler acquisire tecnologia pachistana per la costruzione della 'bomba islamica', un sogno coltivato anche dalla Libia che avrebbe ottenuto tecnologia da Islamabad e Pechino.

Chi la potrebbe avere
Il Sudafrica, che ha siglato il Tnp nel 1991, è l'unico paese che ha avuto la bomba (sei testate) e l'ha smantellata. Bielorussia, Kazakistan e Ucraina sono i paesi dell'ex Urss che hanno ereditato capacità e testate nucleari. Hanno però tutti firmato il Tnp, accordandosi con Mosca per la restituzione delle bombe.

Chi detta le regole
Ufficialmente e l'Aiea (International Atomic Energy Agency) con sede a Vienna e creata nel 1957 all'interno
delle Nazioni Unite. È l'ente internazionale di monitoraggio della capacità nucleare e del suo utilizzo a fini pacifici o a scopi bellici. L'organismo e il suo direttore generale, Mohamed El Baradei, sono stati insigniti del Nobel per la pace nel 2005. Ha il potere di far deferire uno Stato membro al Consiglio di sicurezza se viola le regole sottoscritte. Il Board dei governatori è il suo esecutivo. La Conferenza del Disarmo è l'organismo negoziale per il disarmo che comprende 66 membri, tra i quali l'Italia. L'Unidir è l'istituto delle Nazioni Unite per la ricerca sul disarmo.



Il Trattato di non proliferazione
(Tnp, Npt o Nnpt) è l'accordo internazionale che intende limitare la corsa al nucleare e agli armamenti. Data al 1 luglio 1968, quando fu creato su proposta di Irlanda e Finlandia e caldeggiato dagli Stati Uniti. È stato firmato da 188 paesi. Il Tnp ha il compito di impedire la produzione e l'acquisizione di armi nucleari da parte degli Stati che non ne siano ancora in possesso. Se il Consiglio di sicurezza è il club del nucleare doc, affiancato dal Global Nuclear Energy Partnership (Gnep), associazione esclusiva dei vecchi possessori ufficiali della bomba, esiste anche il Nuclear Suppliers Group. Ne fanno parte 45 paesi (tra cui Pechino e Mosca). Monitora l'andamento del mercato nucleare su base volontaria.

Chi produce uranio
I maggiori produttori sono Australia, Canada, Cina, Kazakistan, Namibia, Niger, Russia e Uzbekistan.

Chi lo vende in nero
È il mercato delle cosiddette bombe sporche, di minerale sensibile che bypassa le dogane, di tecnologia o materiale fissile venduto di contrabbando. È nato dopo la dissoluzione dell'Urss.

E. G.

 

 

La pazienza cinese

di Pio d'Emilia
"La politica non è una religione. Non può essere portata avanti a colpi di dogmi. Quando una strategia non funziona, bisogna avere il coraggio di cambiarla. In tempo". Yan Xuetong è il direttore dell'Istituto di Studi internazionali dell'Università Tsinghua, a Pechino, una delle più prestigiose della Cina. Lo abbiamo intervistato sulla minaccia nucleare coreana.

Professore, ma perché Pyongyang continua ad alzare la posta? Siamo davvero, come sostengono gli americani, alle ultime minacce di un regime in decomposizione?
"Tutt'altro. Fermo restando che le recenti iniziative di Pyongyang, dai missili sparati sul Mar del Giappone a luglio all'odierno test nucleare, non sono affatto condivise dal governo cinese, che le considera un grave pericolo per la pace, la stabilità in Asia e la denuclearizzazione della Penisola coreana, dobbiamo cercare di capire anche le loro ragioni".

E quali sarebbero?
"Considerare queste azioni come minacce alla pace tali da provocare il ricorso all'articolo 7 dell'Onu e giustificare le sanzioni non mi sembra opportuno. L'economia mondiale è sempre più interdipendente, a nessuno viene in mente di provocare un conflitto. Oggi il mondo ha bisogno di un forte rilancio della diplomazia, di moderazione e tolleranza, non di flettere i muscoli. La Repubblica popolare democratica di Corea ha inviato un messaggio politico, il suo test nucleare non rappresenta soltanto una minaccia, è anche un segnale. Le tensioni vengono da un'altra parte".

E da dove?
"Dagli Stati Uniti. Perché non si parla dell'enorme arsenale nucleare che gli Usa portano a spasso per il Pacifico? E sono proprio gli Stati Uniti a rifiutare il dialogo diretto con la Corea del Nord".

Ma la Cina non ha appoggiato, ospitandone i lavori, il negoziato a sei, interrotto lo scorso novembre dopo il congelamento delle risorse finanziarie nordcoreane a Macao?
"Bisogna riconoscere con franchezza che il negoziato a sei non ha futuro. Fin dall'inizio noi cinesi eravamo scettici, ma ci siamo sforzati, nell'interesse della comunità internazionale, perché avesse successo. Non è stato possibile. Un po' per l'atteggiamento degli americani, un po' perché negli ultimi tempi il nostro potere di contenimento nei confronti di Pyongyang si è notevolmente ridotto".

In che senso? Di fatto siete rimasti gli unici ad aiutare, in tutti i modi, il regime. Senza la Cina, la Corea del Nord non esisterebbe.
"Forse è stato così per qualche anno, dalla fine dell'Unione Sovietica. Ultimamente Pyongyang ha cercato e trovato nuovi amici e alleati. Iran e Venezuela, per esempio. Entrambi possono fornire petrolio, aiuti alimentari, valuta straniera. Più che nei confronti di Pyongyang, forse dovremmo cercare di esercitare pressioni su Washington e Tokyo, paesi dove, grazie alla progressiva interdipendenza delle nostre economie, la Cina ha aumentato la sua influenza".

E cosa suggerirà la Cina agli Stati Uniti?
"Io parlo da studioso, non rappresento il mio governo. Ma ritengo che per uscire da una situazione sempre più difficile, prima che si imbocchi una via senza ritorno, occorra rilanciare il dialogo diplomatico e tornare allo spirito del comunicato congiunto del settembre 1995, nel quale, in cambio dell'abbandono del programma nucleare, gli Stati Uniti si impegnavano a garantire la sicurezza di Pyongyang. Certo, da allora molte cose sono cambiate. La Corea ha la bomba e gli Usa non sono disposti a tollerarla. Tuttavia, pressioni e minacce, senza l'ausilio del dialogo, non hanno mai dato frutti. Non vedo come possano darli questa volta".