di Edmondo Berselli
La timida riforma delle comunicazioni non tocca il potere mediatico di Berlusconi né il controllo dei partiti in Rai. E serve solo a prendere tempo
Paolo Gentiloni
Morbida, mite, equilibrata. Gli aggettivi dedicati dal centrosinistra alla riforma del sistema televisivo firmata dal ministro delle Comunicazioni Paolo Gentiloni sono tutti omogenei. Si mette un accento gentile sulla parola chiave, 'mercato'. Ed è logico: in un sistema moderno dei media, la libertà di informazione è proporzionale alla pluralità dei soggetti televisivi. La democrazia economica equivale alla democrazia politica. Ma si può davvero trattare la televisione in Italia come una questione industriale e commerciale? Evidentemente no. Abbiamo una storia perversa alle spalle, che rende superfluo segnalare ancora una volta come intorno al duopolio si sia incentrato il nucleo più bruciante del conflitto (o della convergenza) di interessi riguardante Silvio Berlusconi.

Dopo le elezioni del 1994 fu un sociologo allora conosciuto soltanto nella comunità scientifica, Luca Ricolfi, a indicare che la tv aveva spostato a favore del centrodestra un decimo dell'elettorato, quattro milioni di voti (per questa valutazione Ricolfi fu subissato da critiche severissime). E uno degli sforzi principali dei berluscones, in tutti questi anni, è consistito nell'opera di convincimento tesa ad affermare l'idea che la tv non ha un'influenza reale sulle preferenze elettorali dell'opinione pubblica.

Era pura propaganda, naturalmente, seppure condotta al livello di un capolavoro: e per i cinque anni di governo della Casa delle libertà il sistema politico-mediatico italiano, con la proprietà di Mediaset e il controllo della Rai, ha rappresentato un caso inedito nella vicenda delle democrazie moderne.

In realtà, la televisione è la politica. Lo sa Berlusconi come lo sanno i suoi avversari. È uno strumento che condiziona e manipola. Gestisce il flusso di informazioni così come convoglia il consenso. Ci si poteva aspettare per questo che negli scorsi anni il centrosinistra, dall'opposizione, lanciasse una spregiudicata campagna per smantellare l'anomalia, anche con soluzioni di ristrutturazione spettacolare, che servissero perlomeno a mantenere alto il livello polemico e a rendere consapevole l'opinione pubblica, mitridatizzata dalla Cdl. Mercato contro monopolio. Privatizzazioni contro il controllo politico. Ciò non è avvenuto: per cinque anni il centrosinistra ha combattuto a palmo a palmo sul terreno della Rai, senza sfuggire al sospetto di una lottizzazione contrattata; e probabilmente la riforma Gentiloni è la figlia, non indecente ma chissà quanto adeguata, di una timidezza durata troppo a lungo. Vero è che dopo le elezioni ogni riforma incisiva sarebbe stata impugnata dalla Cdl come un esproprio e un attentato alla libertà d'impresa. Occorreva quindi una soluzione politica, che avviasse una trasformazione graduale senza prestare il fianco all'accusa di pratiche illiberali.

Sotto questo profilo, la reazione di Berlusconi all'annuncio della legge è stata di una chiarezza accecante: un atto di "banditismo". Praticamente un appello alla resistenza contro un disegno 'comunista'. In realtà, la proposta del ministro corre su un binario strettissimo: deve puntare sulla creazione di un mercato non monopolistico senza scatenare una guerra civile sugli interessi di Berlusconi. Ovvero, deve provare a limitare gli effetti distorsivi del duopolio senza che ciò appaia come una vendetta post elettorale. Che il progetto sia adeguato a questa finalità è tutto da verificare. Berlusconi farà carte false per non perdere la sua rete analogica. Il passaggio sul digitale di una rete Rai sarà un campo di battaglia fra interessi politici confliggenti anche a sinistra. Per ora il disegno del ministro assomiglia quindi a un'apertura di tavolo, in cui si dichiarano intenzioni e si indicano obiettivi. Poi la partita si sposterà sul campo parlamentare e si vedrà il risultato.

Sulle prospettive di lungo periodo è difficile esprimere giudizi: il sistema televisivo del futuro, fra digitale, satellitare e banda larga, è terra incognita. Secondo le previsioni più ottimistiche, la televisione a venire conterrà una tale varietà di offerta da rendere anacronistica ogni idea di controllo politico. Ma il problema riguarda il futuro più o meno immediato. E su questo piano la riforma Gentiloni rappresenta più che altro un approccio al problema, non certo la soluzione. La parte politica più rilevante della sua iniziativa è l'abrogazione di fatto della legge Gasparri, che era stata l'espediente 'di sistema' inventato dalla Cdl per mantenere intatto il potere mediatico berlusconiano. Tuttavia il taglio del duopolio, con la spedizione sul digitale di una rete Rai e una rete Mediaset, non è certamente un provvedimento risolutivo.
Per ciò che riguarda il complesso televisivo di Berlusconi, il mantenimento di due reti attenua quantitativamente l'anomalia (sebbene il tetto pubblicitario del 45 per cento sul totale sia ancora molto elevato). Mentre per quanto concerne la Rai, per ora non viene toccato il problema del controllo politico del cosiddetto servizio pubblico.

È realistico pensare che il progetto Gentiloni sia l'unico compromesso ragionevolmente possibile in questo momento fra le ragioni del pluralismo democratico e l'entità del problema patrimoniale e politico costituito dalla televisione. Intanto perché apre la via all'ingresso di soggetti ulteriori, nuove reti e dunque nuovi editori che occuperebbero le frequenze liberate; e di conseguenza perché in questo modo le posizioni dominanti (dominanti anche in chiave politica) verrebbero stemperate in un'articolazione più ampia. Ciò nonostante, almeno nel medio termine il sistema televisivo rimarrà fortemente condizionato dalla politica, e non soltanto sul versante Mediaset. Per la Rai, infatti, si parla di un ridisegno della governance, sul modello della Bbc, che affianchi al controllo del Parlamento altri attori (sindacati, rettori universitari, associazioni degli utenti e dei consumatori, autonomie locali) tale da sottrarre il consiglio d'amministrazione all'imperio delle maggioranze politiche.

Le linee generali di questa ipotesi dovranno comunque essere vagliate dal Parlamento, ed è difficile sfuggire al timore che la portata del problema implichi l'apertura di un negoziato, di portata talmente vasta da implicare potenzialmente un estenuante gioco degli scambi e dei veti.

Probabilmente quella di Gentiloni è la meno peggiore riforma possibile nel peggiore dei mondi (televisivi) reali. Di certo anche il programma dell'Unione si era tenuto alla larga da modelli rivoluzionari, concependo pur sempre la Rai come una realtà "che dovrà essere preservata, come forza industriale, editoriale e produttiva".

Alla larga quindi da privatizzazioni integrali, e dalla costruzione dall'alto di un mercato vero: c'è nel centrosinistra, o almeno nella sua componente maggioritaria, un rifiuto di ogni idea di dismissione del servizio pubblico, anche bilanciata dallo smantellamento e dalla collocazione sul mercato del monopolio Mediaset. Per questo la proposta di Pier Ferdinando Casini, privatizzare RaiUno, è stata accolta come una provocazione. Non è tempo di rotture spettacolari, si tratta di ridimensionare, limare, armonizzare. Nella convinzione che poi la rivoluzione avverrà da sola in seguito al cambiamento tecnologico. Resta solo da capire che cosa succederà nell'età di mezzo, fra l'epoca analogica e l'epoca digitale, fra la tv generalista e quella tematica, nel lungo guado fra l'anomalia e il mercato. In cui la politica farà il possibile per tenersi stretto ogni monopolio residuo, grande o piccolo che sia.