di Adriana Polveroni
Progetti ambiziosi. Firme di architetti star. Eppure i lavori per nuovi spazi espositivi restano al palo. Tra fondi mancanti. Intralci burocratici. E beghe tra intellettuali
Il progetto per il MAXXI di Roma
Nella mostra in corso al Maxxi di Roma, algido assaggio di quello che doveva essere il "museo d'arte contemporanea più grande d'Europa", moquette e pannelli raccontano i musei nati in varie parti del mondo negli ultimi anni. L'occhio corre tra ineffabili trasparenze, forme spregiudicatamente sghembe, cavità improvvise e così via mirabolando. Tra tanti gioielli, di italiano ce n'è uno solo: il Mart di Rovereto, inaugurato tre anni fa. Finanziato dalla provincia autonoma di Trento e scodellato in cinque anni, nonostante le misure oversize: 12 mila metri quadrati per quattro piani. Chissà se gli organizzatori della rassegna hanno pensato al rischio boomerang facendo vedere, proprio in Italia, che gli altri tirano su simili meraviglie che, oltre ad ammaliare gli occhi, catturano consensi e fanno circolare soldi, o se invece volevano denunciare l'anomalia italiana. Perché da noi i musei, specie quelli di arte contemporanea, indispensabile occasione per fare business e marketing urbano, non si fanno. E se si aprono i cantieri, poi si bloccano. E quando sono in piedi, chiudono per restauri che possono durare anche anni.

Non è solo questione di soldi, come per il Maxxi, che dopo sette anni di vita a singhiozzo ora rischia di chiudere. Un progetto che tutti, dal governo passando per Roma e la Regione, omaggiano come 'opera di interesse nazionale', ma per ora nessuno - a partire dai due ministeri cui fa capo, Beni culturali e Infrastrutture - si azzarda a dire dove tirerà fuori i 64 milioni di euro, oltre ai 32 già spesi, necessari per non mettere fine all'utopia visionaria dell'architetta anglo-irachena Zaha Hadid. La quale, se potesse, pare che in Italia non ci metterebbe più piede. I musei da noi non si fanno perché ci si mettono di mezzo altri ministeri, come quello dell'Ambiente, che nel 2000 chiede al Comune di Milano un'indagine parecchio costosa (nessuno a Palazzo Marino si ricorda più a quanto ammontasse) per bonificare l'area della Bovisa dove sarebbe dovuto sorgere il Museo del Presente. Ma "nel frattempo a
Milano sono sorte nuove realtà private, come l'Hangar Bicocca e la Fondazione Pomodoro, che rendono meno urgente un museo contemporaneo", spiega Bruno Simini, assessore ai Lavori pubblici, rivelando candidamente un'altra poco pregevole anomalia italiana: i privati che si muovono (sempre a Milano anche le fondazioni Prada e Trussardi nate negli ultimi) e le istituzioni che rimangono al palo.

E non si fanno, i musei, perché, come in Sicilia, la politica s'ispira ai ribaltoni pirandelliani. L'assessore ai Beni culturali della prima giunta Cuffaro, Alessandro Pagano, sceglie la platea vip della Biennale di Venezia 2004 per annunciare il nuovo museo d'arte contemporanea di Palermo, mette su una commissione di esperti, paga consulenti, sborsa 180 mila euro per una mostra a palazzo Belmonte Riso che dice di aver soffiato al Guggenheim di New York dove dovrebbe poi approdare (ma negli Usa dicono di non saperne niente) e poi manda a casa tutti. E oggi si ricomincia da capo. Con altri 800 milioni di euro avuti dall'Unione europea, oltre il miliardo già intascato tra il 2001 e il 2006, e un nuovo assessore, Lino Leanza, della seconda giunta Cuffaro che promette "discontinuità, perché la cultura è un valore aggiunto".

Ma c'è dell'altro. I musei non nascono perché si litiga tra intellettuali: è il caso dell'abbattimento dell'Ala Cosenza della Galleria nazionale d'Arte moderna di Roma che doveva dare un nuovo volto all'edificio. Ma il cantiere, da quando nel 1999 lo studio svizzero Diener & Diener vince il concorso, non è mai stato aperto perché l'intellighenzia architettonica nostrana si è affannata a discettare se era meglio tenersi l'opera incompiuta di Luigi Cosenza o il progetto degli svizzeri. Nel frattempo "dei 22 milioni di euro necessari, ne sono arrivati solo 10. E se prima con il 30 per cento dei finanziamenti si poteva partire ora, secondo la nuova direttiva del ministero delle Infrastrutture, o ci sono tutti i soldi oppure non se ne fa niente", dice la soprintendente Maria Vittoria Marini Clarelli. Con buona pace dei discettatori.
Oppure i musei non si fanno perché, scavando le fondamenta, si inciampa in un muro per datare il quale la Soprintendenza impiega otto mesi. E nel frattempo il cantiere del Macro di Roma, opera comunale firmata da Odile Decq già in ritardo di due anni sulla data di consegna, chiude. E poi riapre, rinviando l'inaugurazione ad aprile 2008, quando finalmente dovrebbe vedere la luce anche il Museion di Bolzano. E ancora ritardano perché cambiano tre sindaci, tre assessori alla Cultura e tre direttori e ognuno vuole lasciare il proprio segno, come lamenta lo studio Arassociati che firma il progetto di Mambo, il nuovo museo d'arte contemporanea di Bologna che inaugurerà nel maggio 2007 dopo sette anni di lavori stop and go.

Il guaio è che non solo si perde un treno, quello dell'impresa culturale, peggio è che noi i soldi li perdiamo. Tenere aperto il cantiere del Maxxi costa 300 mila euro al mese. Che moltiplicati per 12 si avvicinano pericolosamente agli otto milioni che per ora il ministro dei Beni culturali Francesco Rutelli è riuscito a dragare dai suoi fondi per tenere in vita il cantiere di Zaha Hadid. Più economico quello del Macro: 16 mila euro al mese chiede l'impresa per tenerlo a bocce ferme, a fronte di un budegt complessivo di 18 milioni. E non si tratta solo di sprechi, ma anche di perdita di occasioni. Specie per una città come Roma, dove ad aprile sbarca una fiera dell'arte internazionale forte di un circuito di nuove e vecchie gallerie, ma senza il sostegno dei musei.

Peccati minori, comunque, se paragonati alla lievitazione dei costi che registra la nuvola disegnata da Massimilano Fuksas per il nuovo Centro congressi dell'Eur. Passata dai 130 milioni di euro preventivati nel '98, quando Fuksas si aggiudica il concorso, agli attuali 200, con in mezzo società nate e morte perché non operative e un braccio di ferro per rompere l'accordo con Carmine De Gennaro, deputato barese Udc, che aveva vinto la gara d'appalto, ma non apriva il cantiere. Con il risultato di perdere quote di mercato in un settore, quello del turismo congressuale, che altri Paesi fanno a gara per accaparrarsi. Basta guardare alla Spagna. "Nel 2000 Barcellona discuteva se realizzare un nuovo centro congressi per il Forum 2004", ricostruisce la vicenda Francesco Garofalo, architetto romano attualmente impegnato in un altro museo delle nebbie, a Cosenza. "E hanno scommesso nella nostra incapacità: sono due anni che l'edificio progettato da Mateo lavora portandoci via soldi, mentre da noi il cantiere non è stato ancora aperto". Certo le rassicurazioni, come nel caso del Maxxi, non mancano, ma il rebus dei fondi resta.

Non sarà che in Italia, Paese non propriamente all'avanguardia quanto a opere pubbliche, si fanno progetti un po' troppo alla Mitterand? Si chiamano archistar internazionali costose, capricciose che ci mettono un tot per calibrare i progetti rispetto alla realtà in cui si trovano e ai soldi ci si pensa dopo? Già ora, per cercare di non morire, il progetto di Zaha Hadid per il Maxxi è stato ridotto al 65 per cento. E i tagli non riguardano solo pareti e volumi fluttuanti, ma soprattutto i budget. Ne sa qualcosa anche lo studio 5+1AA, che un anno fa si è aggiudicato il nuovo Palacinema di Venezia: costo 75 milioni. Ma il cantiere non ha aperto perché Comune ed Ente Biennale fanno i conti e scoprono che il progetto gli costa 120 milioni, che non hanno. Allora Alfonso Femia e gli altri architetti lavorano di forbici: "Noi garantiamo il progetto per effettivi 75 milioni, ma più giù non si può, perché se mi si chiede una Porsche non gli posso dare una Panda. Senza pensare che il tempo perduto fa invecchiare l'opera e forse la sua realizzazione non ha più senso perché nel frattempo, come è successo a Roma, nasce un nuovo festival del cinema".

Oppure la copertura finanziaria si fa navigando a vista o anche grazie a fondi Ue come per il Madre di Napoli. All'ex Arsenale di Verona, di cui Chipperfield nel 2000 ha vinto il concorso per ridisegnarlo in polo museale (80-100 milioni), sono all'incarico di progettazione preliminare. "Ma se partirà il cantiere, a gestirlo dovranno essere i privati perché il Comune questi soldi non li ha", racconta Luciano Ortolani, direttore area Lavori pubblici del Comune. E allora? "L'unica strada è che le amministrazioni pubbliche vendano i propri patrimoni". "Oppure che svuotino le casse", tuona Bruno Simini. L'ex Ansaldo, che il solito Chipperfield dovrebbe trasformare nella milanese Città delle culture costa 110 milioni: "60 ce li abbiamo e possiamo lavorare al primo lotto, i 50 che mancano li tireremo fuori da soli, visto che i soldi se li prende tutti Roma Capitale: 610 milioni in finanziaria per tre anni, di cui 220 solo per il 2007".
Forse alla vulgata leghista di Roma ladrona metterà fine l'annuncio di Vittorio Sgarbi di voler fare dell'ex Ansaldo il museo d'arte contemporanea. Anche perché nel frattempo a Roma ci sono altri problemi. Enti creati per dare slancio alla cultura e che invece finiscono sotto inchiesta. È il caso di Arcus, una spa pubblica voluta dal ministro Giuliano Urbani nel 2004, con capitale sottoscritto dal ministero dell'Economia: 150 milioni di euro, pari al 3 per cento del budget delle opere pubbliche, e operatività decisa dai Beni culturali, Infrastrutture e Trasporti per progetti di grande respiro. Ma succede che i conti non tornano: autisti, consulenti d'oro e sotto il mistero Buttiglione, che porta dal 3 al 5 per cento la quota di Arcus, i grandi progetti comincino a somigliare alle saghe domenicali. Si finanziano l'Associazione 'Una donna per le donne' dell'Aquila, le antiche botteghe romane o la Scuola della cartapesta di Termini Imerese. Allora interviene il minstro Rutelli che ad agosto decide il commissariamento, salvo però confermare la quota del 5 per cento anche per il 2007. "Io però, a parte la commisione di studio guidata da Paolo Baratta, non ho visto nessuno e non ho indicazioni né per il Maxxi, né per il Palacinema", afferma candido Ettore Pietrabissa, direttore generale di Arcus: "Sono quattro mesi che aspetto il commissario, perché solo con lui a fianco potrò tornare a fare il mio lavoro".

Si parla di musei o siamo sbarcati nel castello di Kafka?

In principio
fu Tremonti

È dal 1999 che Margherita Guccione segUn sepolcro anomalo: sigillato con il piombo. Dentro lo scheletro di una donna. Era una strega di 18 secoli fa? ue insieme al direttore Pio Baldi il progetto del Maxxi. I problemi attuali, secondo lei, vanno ricercati nei tagli di Tremonti del 2002: "Ha svuotato le casse e le competenze ad appalto già fatto e così ci siamo ritroviati con il cantiere aperto e senza soldi. Siamo andati avanti con piccoli fondi dei Beni culturali e dei Lavori pubblici, ma con costi e tempi dilatati: se l'opera fosse stata completata nei 30 mesi previsti, sarebbe costata 60 milioni di euro. Oggi, invece, ha superato i 100 milioni".

A che punto è il cantiere?
"Abbiamo finito la parte meno costosa che prevedeva l'uso del cemento, ma ora è il momento delle tecnologie avanzate. Non stiamo facendo solo un museo, ma un pezzo di città".

Non potrebbe essere stato uno sbaglio la scelta di Zaha Hadid, nota per la difficoltà a tradurre in esecutivo i suoi progetti?
"No, penso che se non avessimo avuto la forza del suo nome, avremmo chiuso da tempo".

Allora c'è qualcosa che non va nel meccanismo dei concorsi?
"Forse sì, interessi diversi messi insieme e scarsa trasparenza. Ma al momento non esiste un sistema migliore".