di Sir Nicholas Stern
Ridurre le emissioni dei gas responsabili dell'effetto serra non solo è possibile, ma è anche un buon affare. Un rapporto inglese spiega perché
Nell'estate dello scorso anno, il ministro britannico Gordon Brown mi ha chiesto di esaminare l'impatto economico dei cambiamenti climatici e di basare l'analisi su dati scientifici concreti e sulle pubblicazioni economiche più recenti. Lo 'Stern Review of the Economics of Climate Change' ('Rapporto Stern sull'economia dei cambiamenti climatici'), presentato il 30 ottobre, riconosce le schiaccianti prove scientifiche del fatto che i cambiamenti climatici sono una minaccia mondiale a opera dell'uomo nei confronti della sostenibilità della vita sulla Terra. Le nostre ricerche indicano comunque che c'è ancora la possibilità di evitare i rischi e gli impatti peggiori dei cambiamenti climatici a un costo abbordabile, a condizione che si porti avanti con urgenza un intervento ben ideato e coordinato a livello sia nazionale che internazionale.

Il flusso annuale di anidride carbonica e di altri gas serra che riscaldano l'atmosfera terrestre è accelerato da quando carbone, petrolio e gas hanno cominciato ad alimentare la rivoluzione industriale che ha migliorato la vita di tantissime persone. Oggi i miliardi di tonnellate di anidride carbonica e di altri gas serra che continuano ad accumularsi nella fragile atmosfera che ci protegge hanno già fatto salire le concentrazioni a circa 430 parti per milione (ppm) di anidride carbonica, rispetto alle 280 ppm che si registravano di prima della rivoluzione industriale.

Le attività umane riversano ogni anno nell'atmosfera 45 miliardi di tonnellate di gas serra, con ritmo crescente. Gli intricati ecosistemi terrestri ne assorbono attualmente circa metà, ma il resto viene trattenuto nell'atmosfera, portando la riserva di gas accumulatasi verso livelli sempre più alti di anno in anno.

Le nostre ricerche evidenziano che gli sforzi a livello mondiale devono mirare a limitare i livelli finali di gas serra nell'atmosfera a 450-550 ppm. Ciò è realizzabile ed economicamente fattibile, e diminuirà notevolmente il rischio di cambiamenti estremi della temperatura. Questo traguardo esige una riduzione, entro il 2050, del flusso annuo di emissioni almeno del 25 per cento rispetto ai livelli odierni, ed esige che si continuino poi a ridurre i gas fino ad abbatterli almeno dell'80 per cento rispetto ai valori attuali, permettendo in tal modo una stabilizzazione.

Gli economisti definiscono i cambiamenti climatici indotti dall'uomo una 'causa esterna' e il clima un 'bene pubblico'. Chi produce gas serra per l'energia elettrica, le centrali energetiche, chi disperde i gas, distrugge foreste, vola con aerei o guida automobili, non paga il danno causato dalle proprie emissioni.

L'analisi individua tre azioni politiche necessarie perché la risposta globale sia efficace. Per prima cosa occorre fissare il prezzo del carbonio, mediante imposte, scabi di quote o leggi, e fare in modo che i responsabili paghino per intero il costo sociale delle proprie azioni. Poi servono politiche di sostegno all'innovazione e all'impiego di tecnologie a basso tenore di carbonio. Infine occorre eliminare le barriere che impediscono un utilizzo più efficiente dell'energa e adottare misure per informare, educare e persuadere.

I provvedimenti devono inoltre occuparsi anche delle emissioni non provenienti dalla produzione di energia, pari a un terzo del totale mondiale. Ed evitare ulteriori deforestazioni dev'essere una priorità urgente.

Chiari segnali politici, credibili nel medio e lungo termine, dovranno guidare gli investimenti privati verso una diminuzione delle emissioni. Con l'aumentare della consapevolezza, la gente esigerà sempre più una risposta forte dai governi. Lo stesso dibattito pubblico è una componente essenziale della politica.

Il 'Rapporto' evidenzia come un'azione valida per la riduzione delle emissioni potrebbe contenere i costi di queste misure entro circa l'1 per cento del Pil mondiale ogni anno. In questo modo, l'economia continuerebbe a crescere, mentre il passaggio a un'economia a basso tenore di carbonio aprirebbe stimolanti opportunità commerciali, facendo crescere la domanda di nuovi prodotti e servizi finanziari per un valore di centinaia di miliardi l'anno.
Al contrario, i dati esaminati confermano che 'agire come se niente fosse' non è un'opzione percorribile. I tentativi di continuare per una strada insostenibile come quella attuale saranno sempre più ostacolati man mano che scioglimento dei ghiacciai, temperature più elevate, uragani più violenti, siccità più lunghe, inondazioni più frequenti e innalzamento dei livelli dei mari costeranno sempre di più in termini di benessere sociale e di vite umane. Ignorare il problema indebolirà il nostro tenore di vita, nuocendo alla fine alla crescita economica.

Non intervenire sui cambiamenti climatici rischia di elevare le temperature medie del globo di oltre cinque gradi: l'equivalente della differenza fra oggi e l'ultima era glaciale. E questo porterebbe l'umanità in un territorio sconosciuto. Più alta è la temperatura media, infatti, maggiore è il rischio di produrre cambiamenti ecologici irreversibili e di amplificare gli impatti distruttivi degli eventi naturali. Così si trasformerebbe la geografia fisica del pianeta, oltre alla geografia umana: come e dove viviamo le nostre vite.

Ridurre le emissioni, dunque, è prioritario. Ma non basta: occorre anche adottare misure per favorire l'adattamento e limitare i danni causati dai cambiamenti climatici già in atto nell'ecosistema globale. Alla fine, i combustibili a base di carbonio, causa del problema, si esauriranno. Ma se continueremo ad utilizzarli agendo 'come se niente fosse', il mondo rimarrà danneggiato in maniera irreparabile molto prima del loro esaurimento. Per questa ragione il rapido sviluppo di tecnologie che permettano di ridurre il carbonio è essenziale per conciliare l'impiego continuo dei carburanti fossili, in particolare del carbone, con gli obiettivi relativi ai cambiamenti climatici.

Nell'affrontare i cambiamenti climatici dobbiamo poi tenere conto di importanti aspetti di equità, e delle modalità di collaborazione a livello internazionale. Tradizionalmente, il grosso delle emissioni accumulate è prodotto dai pionieri della rivoluzione industriale, fondamentalmente l'Europa ed il Nord America. Ma oggi, mediamente, la richiesta di energia di questi paesi sta crescendo con relativa lentezza. Le maggiori emissioni di domani arriveranno dai paesi in via di sviluppo, intensamente popolati e in rapida crescita, come Cina e India. Traguardi ambiziosi attendono i nuovi mercati, i cui flussi finanziari provenienti dal settore privato dovranno rivolgersi verso investimenti di grande portata, necessari per produrre in questi paesi energia a basso tenore di carbonio.

I costi di questo adattamento dei paesi in via di sviluppo alle necessità imposte dai cambiamenti climatici rendono più che mai urgente il rispetto degli impegni assunti a Monterrey nel 2002 e ribaditi durante gli incontri del G8 a Gleneagles nel 2005, che puntano al raddoppio del flusso di aiuti entro il 2010.

Nonostante la misura della sfida che abbiamo di fronte, le conclusioni del 'Rapporto' sono fondamentalmente ottimistiche. Se interverremo subito, e agiremo a livello internazionale, potremo ridurre drasticamente i rischi a un costo modesto. Ma se rinvieremo anche solo di dieci o 20 anni, i costi saranno molto più elevati ed i rischi molto maggiori. Con un intervento deciso e urgente, governi, imprese e singoli individui, uniti, potranno salvaguardare la nostra crescita e la nostra futura prosperità. Non dobbiamo sprecare questa occasione. Il futuro dei nostri figli dipende da ciò che noi decidiamo oggi.

*Direttore del Servizio Economico Statale, già Chief Economist della Banca Mondiale.

Il 'Rapporto Stern' è visibile sul sito www.sternreview.org.uk

Chi taglia cresce

di Daniele Fanelli
Evitare i peggiori danni del riscaldamento globale è ancora possibile ed è conveniente, ma richiede un'azione immediata e coordinata a livello mondiale. Sir Nicholas Stern conclude che ignorare l'effetto serra ci costerà, nel migliore dei casi, il 5 per cento del Pil mondiale annuale, e nel peggiore anche il 20 per cento. Ridurre le emissioni, invece, potrebbe costarci al massimo il 3,4 per cento del Pil, e non è escluso che ci possa rendere più ricchi di prima. Ma non tutti gli esperti concordano, e molti sottolineano che il gioco di Kyoto non vale la candela. In effetti, finora le stime dei danni erano molto più basse. Lo stesso Intergovernmental panel on climate change dell'Onu, la più vasta e autorevole comunità scientifica che si occupa dei cambiamenti climatici, nel 2001 calcolava che un aumento di temperatura di 2.5 C sarebbe costato circa il 2 per cento del Pil mondiale. E uno dei massimi esperti del settore, l'economista William Nordhaus, ha spinto le sue stime più recenti a un massimo del 3 per cento. Cosa è cambiato? Innanzitutto, i raffinati modelli di Stern attribuiscono un valore più alto di quello monetario ai danni che si produrranno nei paesi del Terzo mondo. Questi ultimi subiranno le perdite più gravi, che però finora apparivano meno significative perché non corrette in base al diverso costo della vita. Ma soprattutto, Stern ha realisticamente incluso nei modelli la possibilità che gli effetti del riscaldamento globale danneggino lo sviluppo economico. Le previsioni degli economisti, infatti, si fanno sempre più pessimistiche, e si aggravano le previsioni dei danni. Così la possibilità di una crisi economica mondiale dovuta alla catastrofe climatica sembra sempre più concreta.

Il costo di tagliare le emissioni dei gas responsabili dell'effetto serra, d'altra parte, è stato forse esagerato. La House of Lords, per esempio, in uno studio presentato lo scorso anno al governo inglese ha ipotizzato una spesa compresa fra lo 0,2 e il 3,2 per cento del Pil, a seconda dei tempi e dei modi con cui il taglio è operato. I modelli di Stern, invece, indicano che il costo più probabile sarà di circa l'1 per cento del Pil, e con un margine di incertezza amplissimo. Tagliare le emissioni potrebbe addirittura farci crescere. Lo avrebbero dimostrato per la prima volta gli economisti della Università di Cambridge e della Fondazione Eni Enrico Mattei, in un recente studio su 'Energy Journal'. Una politica rigorosa di taglio delle emissioni potrebbe spingere l'industria verso lo sviluppo e l'adozione di tecnologie più pulite, che presto diverrebbero competitive con quelle tradizionali. Questo potrebbe stimolare la crescita economica mondiale anche dell'1,7 per cento in un secolo.

Sui costi futuri di tagliare le emissioni c'è ancora molta incertezza, ma è appurato che nel breve periodo Kyoto sarà un ottimo affare, almeno per l'Italia. "Le elevate concentrazioni di polveri sottili causano ogni anno migliaia di morti e una serie di altre patologie che hanno un altissimo costo sanitario e riducono la produttività", spiega Giulio De Leo, professore di Ecologia dell'Università di Parma. In una ricerca pubblicata su 'Nature', De Leo ha dimostrato che, rispettando gli impegni del protocollo di Kyoto per il 2012, il nostro paese guadagnerà oltre un miliardo e mezzo di euro l'anno, grazie al risparmio sulla spesa sanitaria. Gli studi più recenti confermano. "In questi calcoli non abbiamo considerato altri vantaggi economici, per esempio quelli derivanti dal risparmio energetico e dallo sviluppo di tecnologie rivendibili all'estero", aggiunge De Leo. Insomma, grazie a Kyoto il nostro paese guadagnerà in salute, qualità ambientale e ricchezza. E il tutto avendo investito al massimo 3 miliardi di euro.