di Alessandro Gilioli
Dimezzate le tessere per Lazio e Juventus. In calo anche Milan e Inter, le due favorite. Diversi club, tra cui la Roma, quest'anno non hanno trovato neppure lo sponsor
Onore e gloria imperitura ai quasi 10 mila tifosi-talebani della Reggina calcio, che anche quest'anno hanno fatto la tessera al Granillo nonostante i 15 punti in meno e un campionato che si avvia a essere una lunga agonia verso la B. Onore e gloria anche perché in controtendenza totale rispetto al resto della Penisola, che ha visto le campagne abbonamenti dei club registrare un flop senza precedenti.

Tra le big la botta peggiore l'ha presa la Lazio (meno 50 per cento rispetto all'anno scorso), ma la società di Claudio Lotito non piange certo da sola: Udinese, Livorno e Messina viaggiano sulla stessa media, a Empoli e ad Ascoli stanno pure peggio e perfino il Milan, tra i favoriti per lo scudetto, ha visto sparire un abbonato su quattro, forse per via di un mercato così così. Un po' meglio va ai cugini dell'Inter, che ritroveranno nove abbonati su dieci, così come la Roma. Ma la media di serie A - tra proroghe e promozioni dell'ultim'ora - alla fine dovrebbe assestarsi su uno spaventevole 30 per cento in meno, proprio nell'anno in cui l'Italia ha vinto i Mondiali.

Allora, forse, non è una questione di punti in meno né di campagne acquisti scarsine: è il meccanismo stesso ad essersi inceppato da qualche parte. Già, ma dove? Il primo pensiero ovviamente va a Calciopoli, ai quintali di intercettazioni estive e al dubbio che il circo pallonaro non si sia del tutto ripulito: "I tifosi non sono stupidi e dopo tutto quello che hanno letto molti si sono presi una pausa di riflessione", dice ad esempio Marco Branca, direttore tecnico dell'Inter: "La gente vuole prima vedere se lo spettacolo adesso è autentico e se certi personaggi sono davvero spariti". Insomma, una questione di momentanea sfiducia. Tutto qui? "Beh, la crisi del sistema calcio ha scosso milioni di appassionati", dice il ministro dello Sport, Giovanna Melandri, "ma la fuga dagli spalti era già in corso da alcuni anni. Si sa, l'offerta televisiva dilaga: reti generaliste, satellite, digitale terrestre, telefonino...". Colpa della tv, allora? "Certo, con tutti questi nuovi media il fascino di una partita dal vivo non basta più per convincere la gente a muoversi di casa", risponde Giovanni Cobolli Gigli, presidente della Juventus post moggiana, che ne fa però anche una questione di viabilità: "Secondo me sono spariti quei tifosi che per andare alla partita dovevano fare molti chilometri e superare tanti disagi, come ad esempio le condizioni di alcune autostrade. E poi diciamo la verità: gli stadi italiani sono troppo arretrati".

Eccoci dunque al quarto imputato (dopo Calciopoli, la tv e il traffico), cioè gli impianti scadenti: "Sì, bisogna ripensare il modo in cui sono fatti gli stadi", dice il ministro Melandri: "Il problema è che da noi non si stanno trasformando, come nel resto d'Europa, in luoghi di intrattenimento e spettacolo a pieno titolo, in posti di ritrovo dov'è piacevole incontrarsi anche nei giorni in cui non c'è la partita. E poi molto spesso dalle tribune non si vede nemmeno bene il terreno di gioco". Una tesi, questa, che naturalmente piace molto a quelli di Sky, i quali negano un disamoramento al campionato per via dello scandalo ("Altrimenti i nostri abbonati non sarebbero in crescita anche quest'anno"), e puntano il dito appunto sulle gradinate scomode: "Da noi allo stadio il comfort è nullo o quasi; i seggiolini, quando ci sono, sembrano pensati apposta per farti stare a disagio; non ci sono ristoranti, i bar sono pochissimi e i bagni fanno schifo", dice Tullio Camiglieri, dirigente di Rupert Murdoch in Italia. Che aggiunge: "In Inghilterra hanno fatto una politica tutta orientata alla famiglia e le cose sono cambiate. Invece di lamentarsi perché la gente preferisce la tv, basterebbe prendere un aereo per Londra e dare un'occhiata allo Stamford Bridge, dove gioca il Chelsea...". E poi naturalmente allo stadio ci sono gli ultras, con la conseguente paura che scoppino incidenti: qualcosa si è fatto (l'interista Branca sostiene che "negli ultimi due anni la percezione di sicurezza negli stadi è aumentata"), ma la proroga appena concessa dal ministro Amato a chi non si è messo in regola con il decreto Pisanu è stato un segnale poco positivo. E la stessa Melandri ammette che "il problema della sicurezza non è stato ancora risolto in maniera definitiva".
Tuttavia anche dare tutta la colpa agli impianti poco 'family friendly' rischia di essere una semplificazione eccessiva: "Gli stadi da noi sono sempre stati così e una volta la gente li riempiva, adesso non più", dice un esperto di economia del calcio come Diego Corrado, docente alla Sda Bocconi e collaboratore del sito Lavoce.info, "quindi bisogna cercare le ragioni altrove. Come appunto nei contraccolpi di Calciopoli o nella mutazione strisciante del calcio professionistico da sport a spettacolo televisivo". E non si può ignorare nemmeno l'annosa crisi di forza e di liquidità del nostro campionato, testimoniato dalla graduale fuga degli sponsor: "Molte società stanno facendo una fatica incredibile per trovare qualcuno che paghi per avere il nome sulle maglie, e alla prima giornata di campionato di A c'erano tre squadre ancora senza main sponsor", spiega Marcel Vulpis, ideatore e fondatore del sito specializzato SportEconomy.

Eclatante il caso della Roma, terza forza del torneo e in corsa nella Champions League, ma da 18 mesi senza marchio: dopo aver imprudentemente rifiutato uno sconto alla Mazda (il vecchio partner offriva un triennale a 6,5 milioni per stagione) la famiglia Sensi ha visto sfumare la trattativa con Antonveneta e adesso ha abbassato le pretese da 10 a 7 milioni di euro. Il Messina ha finito per autosponsorizzarsi (il presidente Franza ha messo sulle casacche il logo dei suoi alberghi). La Reggina si è affidata ai soldi pubblici della Regione Calabria. La Juventus dovrà ridiscutere al ribasso ("Tra il 30 e il 50 per cento in meno", dice Vulpis) le condizioni con la Tamoil di Gheddafi. Poi c'è il caso limite del Parma, che non solo è senza sponsor, ma non trova nemmeno un proprietario: è in vendita da quasi tre anni, cioè dal crac di Calisto Tanzi. "L'aspetto più preoccupante", spiega Vulpis, "è la latitanza degli investitori internazionali. A parte Toyota (Fiorentina) e Bwin (Milan), tutti gli altri club hanno sponsor nazionali, se non locali. I capitalisti russi e americani si buttano sul calcio inglese o spagnolo, ma evitano quello italiano".

Insomma, la disaffezione al pallone non riguarda solo gli abbonamenti, che rappresentano peraltro una voce sempre meno significativa per i conti dei club: "In media ormai le società incassano dalle tessere meno dell'8 cento dei loro ricavi, quindi un quarto di abbonamenti persi significa una diminuzione degli introiti inferiore al 2 per cento", spiega Diego Corrado: "Semmai il problema è che le gradinate vuote hanno una pessima resa televisiva, e i diritti tv invece rappresentano più di metà dei ricavi dei club. Quindi in futuro alle società converrà riempire tribune e curve anche riducendo i prezzi". Tra l'altro, secondo Corrado, "abbassare il costo dei biglietti favorirebbe il ricambio degli spettatori (meno hooligans più famiglie, com'è avvenuto in Inghilterra) e quindi incentiverebbe il merchandising, un settore i cui i club italiani sono molto indietro rispetto ai big esteri".

Non molte, in verità, le società che hanno capito quest'antifona: all'Ascoli si può prendere la tessera con un prestito a tasso zero con una banca convenzionata; all'Udinese si sono inventati il due per uno, vale a dire che ogni abbonato vecchio ha il posto gratis se ne porta con sé uno nuovo; alla Reggina c'è la minitessera 'di prova' per i primi cinque match; al Genoa (che pure è uno dei pochi club con il segno più rispetto all'anno scorso) sono in promozione delle 'tribune famiglia' per portare mogli e figli al Marassi. Caso a parte la Juventus, che ovviamente ha ridotto i prezzi (la curva è passata da 250 a 165 euro), ma per ora viaggia sui 10 mila abbonati contro i 25 mila dell'anno scorso. È proprio la Juve il club che più s'ispira, per la sua rinascita, al mitico modello british: "Dopo questa stagione transitoria all'Olimpico, il nostro obiettivo è avere uno stadio familiare, confortevole e con tanti servizi", promette Cobolli.

Però intanto la crisi c'è, e spesso ai problemi comuni vanno ad aggiungersi questioni locali, molto contingenti: a Udine, per esempio, la società ha dato il via alla campagna tesseramenti solo il 30 agosto perché prima mancava l'accordo con il Comune sullo stadio e si temeva di giocare a Padova. All'Ascoli si è iniziato a vendere abbonamenti solo tre giorni prima del via. Alla Lazio è in corso una sorta di boicottaggio da parte degli ultras contro la presidenza Lotito. Al Messina - ripescato in A - fino a poche settimane fa non sapevano neppure in che serie avrebbero giocato. Sempre per motivi specifici alcuni club sono andati controcorrente: come l'Atalanta (neopromossa in A), il Napoli e il Genoa (saliti in B). E qualche segnale positivo è arrivato dalla prima di campionato, che ha visto i botteghini con un saldo attivo (seppure minimo) rispetto all'inizio della stagione scorsa.
Ma la gioia di una promozione o la curiosità per un nuovo campione non pare possano fermare un processo che - piaccia o no - è in corso da tempo ed è destinato a rafforzarsi con l'evoluzione della tecnologia. Perché il calcio (e non solo quello italiano, ovviamente) sta per entrare nell'era dell'alta definizione tv, da guardarsi sugli home theatre di casa (vedi articolo a pag. 156). Già quest'anno Sky propone le prime partite in Hd, una rivoluzione - in termini di qualità d'immagine - paragonata da molti al passaggio dal bianco e nero al tv color. Quando poi l'interattività consentirà di visualizzare on demand sul proprio schermo replay, statistiche, inquadrature, focus e così via, lo show calcistico troverà ulteriori motivi per essere vissuto meglio in remoto che sul posto.
E gli stadi (dove prima o poi si entrerà gratis o quasi, visto che il pubblico sbandierante è parte a tutto tondo dello spettacolo venduto alle tv) per fare incassi dovranno inventarsi servizi aggiuntivi, un po' come i siti Internet e i gestori telefonici: vale a dire trasformarsi in luoghi di entertainment sportivo-commerciale (vedi scheda in questa pagina). In pratica dei mall in cui - tra supermarket, videogames, sale scommesse, multicinema, Mediaworld, McDonald's, Pizza Hut e così via - la partita sarà poco più di un pretesto per un'esperienza domenicale di svago e (soprattutto) di consumo. A quel punto la vecchia tessera degli abbonati sarà solo un romantico ricordo del pallone che fu.

Come sarà lo stadio del futuro

Più piccolo L'obiettivo principale per i club sarà offrire alle riprese tv degli spalti gremiti. Un impianto da 30-40 mila posti pieno è molto più telegenico di uno stadio da 80-90 mila posti mezzo vuoto.

Quasi gratuito Per la stessa ragione, i prezzi (non più competitivi con l'offerta televisiva digitale ad alta definizione) dovranno essere abbattuti. Botteghini e abbonamenti rappresentano del resto una percentuale in costante calo degli introiti di una società. La diminuzione di incassi verrà compensata da servizi aggiuntivi e merchandising.

Polifunzionale Mega parcheggi, supermercati, cinema multiplex, sale giochi, sale scommesse, ristoranti, megastore: gli stadi diventano dei mall. E le società avranno
una percentuale sul giro d'affari.

Sempre aperto Questa evoluzione rende lo stadio un luogo in cui si potrà andare (a fare la spesa, al cinema, a comprare dvd) anche nei giorni della settimana in cui non c'è la partita.

Gestito dai club Il ministro Melandri sta pensando ad affidare ai club la gestione diretta degli impianti. Con steward e vigilanti privati anche per garantire la sicurezza del pubblico, come avviene da anni in Inghilterra.

Merchandising oriented La vendita di magliette, bandiere, gadget, giochi, dvd di vecchie partite etc. è un settore ancora poco arato dai club italiani, mentre rappresenta un introito crescente per le società straniere.