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Con Bachelon no.2 era diventata la cantante di Magnolia, con un successo e una notorietà ben al di là di quanto le concedesse il suo carattere schivo
Anima inquieta
Con Lost in space, Aimee Mann appare confusa e frastornata, ma comunque sempre brava

di Roberto Bacchiocchi

Circa quindici anni fa, capelli dritti in testa e una band come tante, Aimee Mann cantava piccole storie d’amore della provincia americana con i ‘Til tuesday.
Coming up close divenne presto un successo da fm amplificato dal susseguirsi dei passaggi televisivi nei primi videoclip di allora.
Ma invece che proiettarla verso una carriera fortunata e ricca, quella hit si dimostrò motivo di vincolo e di contrasto con la casa discografica. Dai piccoli e modesti ‘Til tuesday si cominciò a chiedere e pretendere sempre di più. Esattamente in maniera inversamente proporzionale al successo che, andando avanti, si affievoliva progressivamente. Discografici sempre più indifferenti parevano non volerne più sentire di quei ragazzotti capitanati da quella bionda spilungona dalla voce sensuale.
Una battaglia, lunga e dura, che avrebbe avuto una svolta decisiva nel momento in cui la Mann, più grande e risoluta, non decise di mettersi in proprio e di fondare una propria etichetta.
E’ così che, con la Superego Records è uscito in suo quarto album, Lost in space, che giunge dopo due anni dal grande successo di Bachelor no.2, ovvero della colonna sonora di Magnolia.
Ma se quello è stato, per molti versi, un disco intenso ed ispirato, quasi una rivelazione assoluta del talento della bella Aimee, il nuovo lavoro, nato in un clima forse più sereno, non appare altrettanto pungente. Canzoni di rock semplice, quasi acustico, costituiscono l’insieme di un album nel quale tristezza, squallore e miserie quotidiane rappresentano i temi più frequentemente toccati. La capacità compositiva è straordinaria e fluida, il linguaggio sciolto e a tratti poetico. Squarci di quotidianità e frammenti di alienazione metropolitana vengono fissati con estrema puntualità nella raccolta di canzoni del disco. Pur tuttavia manca qualcosa.
Probabilmente la grande attesa che si è creata intorno a questa nuova prova deve aver causato qualche impaccio. Si avverte quasi una sensazione di disagio, di obbligo a ripercorrere le linee guida del disco precedente. Ma con minore ispirazione però.
La voce della Mann riesce sempre a trasmettere emozioni e intensità, gli arrangiamenti, mai invadenti e misurati, pare vogliano costituire un discreto tappeto sonoro. Eppure si avverte un senso di incompiutezza piuttosto diffuso.
Come se si trattasse di piccoli deliziosi demo in attesa del tocco finale. Quel tocco di classe che, purtroppo, arriverà solo in alcuni brani, come la title-track e la bella Humpty dumpty. Né servono a molto pezzi più tirati come Guys like me o Pavlov’s bell a cambiare l’atmosfera del disco.
Bellezza nervosa, la filiforme Mann, sembra aver smarrito parte della propria energia a duellare con le majors per i diritti degli artisti.
Più che nello spazio, sembra essersi persa in se stessa. E nella paura di sbagliare.

 

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