di Silvia Bizio
Godersi la vita. Giocare a golf. E lavorare il meno possibile. L'attore inglese presenta 'American Dreamz'. E si racconta a ruota libera. Colloquio con Hugh Grant
Hugh Grant
Immaginate un narcisista ignorante, pomposo e pieno di sé che fa il conduttore, mattatore e giudice di un reality show tipo 'American Idol'. Ora immaginate Hugh Grant in quel ruolo. Il risultato è 'American Dreamz', satira sulla dilagante mania e culto della celebrità scritta e diretta da Paul Weitz (con cui Grant aveva già lavorato in 'Un ragazzo'). Difficile far combaciare l'adorabile goffaggine a cui l'attore inglese ci aveva abituati da 'Quattro matrimoni e un funerale' in poi con l'insipida boria del peggior personaggio televisivo. Ma Grant è diventato bravo anche nei ruoli antipatici, come 'Bridget Jones' e seguito attestano. E deve stare attento perché lo sta diventando anche nella vita.

Fidanzato da un anno e mezzo con la giovane miliardaria ereditiera Jemina Kahn (figlia di Sir James Goldmisth ed ex moglie della leggenda del cricket e politico pakistano Imran Kahn), Hugh Grant, 45 anni, sembra impegnato più a evitare gli incontri con la stampa, difendere la propria privacy e godersi il dolce far niente che a lavorare. È tornato al cinema per un solo motivo: "Mi ero annoiato di annoiarmi", dice con aria un po' annoiata durante il nostro incontro al Waldorf Astoria di New York. Qui il londinese Grant è abbastanza di casa perché ci vive suo fratello, broker della J. P. Morgan, e perché proprio qui sta terminando le riprese di un nuovo film, 'Music and Lyrics by', accanto a Drew Barrymore. Prosegue: "Però anche il cinema non mi provoca più grandi emozioni. Non rispondo alle telefonate del mio agente, leggo pochissimi copioni che in genere mi fanno svenire dalla noia a pagina sette. Non posso dire di essermi mai sentito impegnato come attore e tantomeno un attore impegnato. Recito per forza d'inerzia. E perché francamente non saprei che altro fare nella vita".

Da quando sta insieme con la Kahn, Grant si è dedicato soprattutto alle vacanze, 12 in 18 mesi, per la precisione: sci in Val d'Isère, mare ai Caraibi, Marbella e Bahamas, shopping a Parigi e New York, relax a Los Angeles. Il tutto documentatissimo dalla stampa inglese, che non si lascia sfuggire né una litigata con Jemima (tutte per lo stesso motivo: il suo rifiuto di sposarsi), né un riavvicinamento alla ex compagna Liz Hurley (con la scusa di Damian, il figlio di Liz del quale Hugh è padrino). Quintessenza del distacco, Grant si è perfino piegato al cliché del divo che si dà all'impegno umanitario, accompagnando Jemina in una missione caritatevole a Nairobi per conto dell'Unicef, di cui lei è patrona. Grant possiede ancora due appartamenti a Chelsea e Fulham (della cui squadra di calcio è tifoso storico), ma vive fisso nel lussuoso palazzo su King's Road della Kahn.

Parliamo di cinema, ma non si sbilancia troppo. "Se posso scegliere tra fare un film e non farlo, tendo sempre alla seconda opzione", dice Grant: "In genere faccio un film perché mi ci trascinano. Per me recitare è una tortura. Fosse per me scriverei e basta. Ma se non ho una scadenza, come per voi giornalisti, non riesco a concludere nulla. Quindi finisco per non far niente. Gioco a golf con religiosa costanza. Ho sciupato montagne di tempo nell'ultimo anno e mezzo. Tanto valeva lavorare un po'".

Secondo lei qual è il motivo per cui i reality show ai quali 'American Dreamz' fa il verso hanno tanto successo?
"Al pubblico interessa di più la gente vera dei personaggi di finzione. Il miglior sceneggiatore vivente non sarebbe capace di creare donne favolose come quelle di 'Wife Swap' (popolare programma tv inglese, ndr). Io l'onda travolgente dei reality show l'ho sentita arrivare in anticipo quando ho iniziato ad apprezzare i documentari e stufarmi dei drammi. La serie di Michael Apted, 'Seven Up', è straordinaria: storie di gente vera. La vita supera l'arte della finzione".

A lei piacciono i reality show? Le piace la crudeltà che ne trasuda?
"Sì, la crudeltà mi fa godere e mi diverte vedere la gente umiliata in pubblico. È come assistere allo spettacolo dei freak da baraccone. Più freak è, meglio è. Uno show come 'American Dreamz', anzi, è quasi abbottonato. Il perdente dovrebbe esser torturato".
E i vincitori?
"Anche, e peggio. Seriamente, quello del reality è un fenomeno affascinante, un ritorno all'antica Roma, al Colosseo e ai cristiani dati in pasto ai leoni. E la dice lunga anche su tutti quelli dotati di quel gene maledetto che li fa sbavare per stare sotto la luce dei riflettori. Come le falene. Splash!".

Deve averlo anche lei quel gene, o no?
"Mah, sarà. Odio ammetterlo. Ma confesso che mi piacerebbe fare televisione. Sono un fan di uno show inglese chiamato 'Sono una celebrità, fatemi uscire da qui!': se non temessi per la mia dignità firmerei per parteciparvi. Avevo proposto al mio amico Colin Firth di fare un 'Celebrity Wrestling Match' per il 'Comic Relief', ma lui ha rifiutato. Aveva paura, non tanto di farsi male, quanto di divertirsi troppo".

In 'American Dreamz' il presidente americano, interpretato da Dennis Quaid, decide di partecipare al programma come giudice per rialzare i propri indici di gradimento. Il film ha anche un contenuto politico?
"Non lo chieda a me. Non mi piace esprimere opinioni di parte, sia per discrezione sia per il fatto che cambio idea continuamente. Sono molto suscettibile. Se seguo un dibattito politico e qualcuno dice qualcosa di sensato concordo, poi l'oppositore ne dice un'altra e mi convince della sua ragione. Le mie idee politiche sono volatili, spazio dall'estrema sinistra all'estrema destra. È meglio che stia zitto. Del resto, sospetto di quelle persone che non cambiano mai opinione nel corso della vita. Come è possibile? Però mi va bene che altri ne parlino. Anche se le prediche comizianti di certi attori mi risultano quanto mai sgradevoli".

Lei è diventato reticente anche sul versante privato. Perché?
"Dopo anni e anni di gogna pubblica mi sono arcistufato e non voglio dire più niente sulla mia vita privata. Capisco la curiosità e l'interesse. Io stesso, quando mi capita di leggere un'intervista con un attore o attrice, me ne frego di sentirlo parlare del film o della tecnica di recitazione: voglio sapere solo con chi scopa. Ma non mi va più di far parte di questo gioco. Troppi fraintendimenti e ritorsioni, troppe spiegazioni da dare per quello che pare io abbia detto dopo essere stato filtrato e alterato 20 volte dai giornali. Ma non sto qui a dare la colpa a nessuno o a piangermi addosso. Affatto. Dico solo che voglio che la mia privacy mi venga restituita. Lei dirà: ma così rischia l'oblio. E io le rispondo: benissimo".

Le piacerebbe diventare padre?
"Le dico qual è la mia idea del matrimonio perfetto. Vivere in un enorme palazzo con spazio sufficiente per evitare la moglie, con numerosi e solerti domestici che alle sei di sera portano giù in sala da pranzo i bambini, possibilmente vestiti alla marinara e che marciano a tempo. Tu dai loro una rapida occhiata, un buffetto sulla guancia e li rispedisci a letto".

Ricorda la prima volta che si è trovato di fronte alla cinepresa?
"Ero uno studente a Oxford e girammo un pretenzioso film studentesco. Non ricordo quale fosse la mia motivazione, a parte baciare la protagonista del film, un pezzo di figliola che si chiamava Victoria Studd, un nome che è tutto un programma... ('stud' vuol dire 'stallone', ndr)".

C'è un'attrice con cui non ha mai recitato con cui vorrebbe lavorare?
"Meg Ryan: mi chiedo perché non è ancora venuto in mente a nessuno di accoppiarci. Poi Cameron Diaz e Jennifer Lopez: come vede ho gusti nazional-popolari".

L'ultima volta che ci eravamo incontrati lei era alle prese con la stesura di una sceneggiatura. A che punto è?
"È sempre lì, non è ancora finita. Scrivo e riscrivo. Sono in ritardo di due anni almeno. Recitare è come fare i compiti: lo faccio svogliatamente, ma lo faccio. Scrivere invece mi piace, però... Sono un genio nel trovare scuse per non sedermi al computer e lavorare. Basta che qualcuno mi chiami per andare a giocare a golf e schizzo fuori come una Ferrari dai box. Ora poi c'è il Mondiale di calcio: una scusa perfetta".