Sono passati dieci anni da quando, il 24 marzo del 1999, l’aviazione della Nato iniziò i bombardamenti contro quel che rimaneva della ex Jugoslavia (Serbia e Montenegro).

 Per la prima volta nella sua storia l’Alleanza atlantica entrava in guerra contro uno Stato sovrano facente parte delle Nazioni unite e lo faceva senza alcun mandato internazionale come un voto del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Si parlò di intervento militare per porre fine agli scontri etnici fra serbi e albanesi, che di fatto si intensificarono con l’inizio della guerra quando migliaia di albanesi scapparono in Albania e Macedonia per sfuggire alle bombe della Nato e alle rappresaglie delle truppe di Belgrado. Furono necessari 78 giorni di pesanti attacchi aerei per piegare la Jugoslavia e costringerla alla resa. Con la pace di Kumanovo, del 9 giugno, la guerra era finita. Il giorno seguente il Consiglio di sicurezza dell’Onu votava la risoluzione 1244 che dava mandato a una propria missione, l’Unmik, di dispiegarsi sul campo per l’amministrazione civile della provincia serba, e al contingente Kfor dell’Alleanza atlantica affidava il controllo militare e il compito di imporre la pace. Circa 50mila soldati occidentali occuparono il Kosovo che fu diviso in 5 aree di competenza: a est il comando italiano; a nord francese, al centro inglese, a ovest americano; a sud turco-tedesco. La presenza di tanti militari non impedì agli estremisti albanesi dell’Uck (Esercito di liberazione del Kosovo) di portare avanti una contro pulizia etnica sulle etnie non albanesi. Circa 250mila persone, in buona parte serbi, rom e goranci (macedoni islamizzati), furono cacciate dalle loro case a suon di Kalashnikov e quasi ottocento furono assassinate. La risoluzione 1244 parlava inoltre della inviolabilità del territorio della ex Jugoslavia indicando come soluzione della crisi una ridefinizione dello status del Kosovo da realizzarsi sempre all’interno dei confini esistenti.
Dalla fine della guerra la Russia, storica alleata della Serbia, ha sempre impedito al Consiglio di sicurezza di votare un’altra risoluzione minacciando di esercitare il proprio diritto di veto in sede di discussione. Per superare la condizione di stallo, che durava ormai da diversi anni, l’allora Segretario generale delle Nazioni unite Kofi Annan incaricò nel 2005 l’ex Presidente finlandese Marti Ahtisaari di coordinare, a Vienna, una serie di incontri di mediazione a cui dovevano partecipare i rappresentanti della Repubblica di Serbia, del governo provvisorio albanese del Kosovo, dell’Unione europea, di Stati Uniti, Russia e Onu. Già dall’inizio si capì che i margini per raggiungere una soluzione condivisa erano strettissimi: gli albanesi volevano l’indipendenza e i serbi erano disposti a concedere al massimo una larga autonomia. Nei mesi a seguire Ahtisaari venne accusato, in seguito ad alcune sue dichiarazioni sulle responsabilità serbe nella guerra di Bosnia, di essere tutt’altro che imparziale e troppo vicino alle posizioni albanesi. Nell’autunno del 2006, per evitare di essere presi in scacco, i serbi partirono al contrattacco e, approfittando della revisione costituzionale in corso, inserirono riferimenti espliciti sulla inviolabilità dei confini nazionali. La Carta venne approvata con un referendum alla fine di ottobre. Constatata l’inconciliabilità delle posizioni, il diplomatico finlandese presentò il 31 gennaio del 2007 la sua relazione finale, non condivisa da Serbia e Russia. Il cosiddetto “Piano Ahtisaari” prevedeva un’indipendenza graduale del Kosovo, da realizzarsi sotto la supervisione dell’Unione europea. Pristina aspettò comunque un anno, il 17 febbraio del 2008, prima di proclamare la secessione e violare così l’unica risoluzione votata dall’Onu sul Kosovo. Sono appena 55 i Paesi, fra cui l’Italia, che hanno riconosciuto fino ad oggi il neo Stato, mentre sarebbero poco più di 30 quelli che hanno dichiarato ufficialmente che non lo faranno mai. In testa la Russia e la Cina, ma anche quattro membri dell’Unione europea: Spagna, Grecia, Romania e Slovacchia. L’ultimo puntata dell’intricata telenovela balcanica è iniziata lo scorso 9 dicembre con il passaggio di consegne fra la missione Unmik dell’Onu e Eulex dell’Ue. Oltre millecinquecento uomini si sono già dispiegati su buona parte del territorio, tranne nelle aree a maggioranza serba vicino la città di Kosovska Mitrovica dove continuerà ad operare l’Onu, e nei prossimi mesi raggiungeranno i millenovecento (200 saranno gli italiani); ad essi si affiancheranno inoltre circa millecento unità locali.
La missione, finanziata con due miliardi di euro, durerà almeno 24 mesi ma in caso di necessità potrà essere prolungata. Del contingente internazionale, il più numeroso mai messo in campo da Bruxelles, fanno parte poliziotti, magistrati, agenti della polizia penitenziaria e delle dogane, che avranno il compito di formare i loro colleghi kosovari per promuovere lo sviluppo delle istituzioni democratiche, della legalità e della convivenza etnica. La missione Eulex opererà sotto l’ombrello della 1244 e non farà alcun riferimento al piano Ahtisaari e all'indipendenza. Con la divisione in due aree di competenza, quella dell’Ue su buona parte del Kosovo e quella dell’Onu su quella a maggioranza serba, si sta di fatto rischiando di dare il via a una nuova secessione su base etnica. Il simbolo di una pace ancora troppo lontana è Kosovska Mitrovica, una sorta di nuova Berlino in chiave balcanica, dove non un muro ma un fiume, l’Ibar, divide due mondi: quello serbo a nord e quello albanese a sud.

(Le foto del Cimitero profanato a Bjelo Polje sono di Pippo Bitti)

 

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