Al suo Torino Festival nessuna opera “made in Italy”

 
Controcorrente. Come è sempre stato. Nell’anno dei premi a Cannes per Il divo e per Gomorra e della marcata presenza italiana sia alla Mostra di Venezia che al Festival di Roma, Nanni Moretti non infila nemmeno un titolo «made in Italy» nel concorso del Torino Film Festival in programma dal 21 al 29. Se si era posto l’antico quesito di Ecce bombo sul modo per farsi notare di più, l’autore, ancora una volta, ha fatto centro. Senza film autarchici lo si nota di più: «Tra i lungometraggi che abbiamo visto e che non erano andati ad altri Festival non abbiamo trovato film che ci convincessero per il concorso e nemmeno per il fuori concorso». Ed ecco i conti: «A Venezia ci sono stati quattro film italiani in concorso, a Roma sei, a Torino zero su 15, quindi la media è di 3,3 periodico». E in ogni caso, aggiunge Moretti, «tre delle sezioni del Festival sono dedicate a titoli italiani». E la rinascita tanto sbandierata dopo l’exploit di Sorrentino e di Garrone? Moretti getta acqua sul fuoco: «Da noi c’è questo vizio di stabilire, due o tre volte all’anno, lo stato di salute del cinema. Il successo di Gomorra e del Divo appartiene a due autori, questo tanto per smentire chi ha sempre addossato al cinema autoriale la colpa delle crisi».

Insomma, se Moretti si è entusiasmato è stato per altre immagini. Prima di tutto quelle di W di Oliver Stone, fiore all’occhiello della rassegna che per il momento, dopo l’anteprima torinese, in Italia resterà invisibile perché nessun distributore lo ha acquistato: «Sarebbe un peccato, il film ha un cast pazzesco, rispetto agli altri di Stone è molto più trattenuto e meno roboante». Il Festival di Roma non era riuscito ad averlo e le voci, puntualmente smentite dal presidente Gianluigi Rondi, parlavano di esclusione strategica, dettata dalle antipatie politiche del sindaco capitolino Alemanno: «Quella di venire a Torino è stata una scelta dei produttori e dei distributori».

Moretti non è in vena di polemiche, dribbla le domande sull’attualità («Sanno tutti che cosa penso del clima politico e culturale in Italia») e si lascia sfuggire un commento a mezza bocca solo a proposito dello slogan del Festival: «Serio e allegro, come l’anno scorso, anche se non so quanto questa definizione possa essere rappresentativa oggi del nostro Paese». Meglio pensare al cinema, senza rispondere alla grande domanda, quella riguardante la possibilità di restare ancora, dopo la scadenza del mandato di due anni, alla guida della rassegna: «Inizierò a parlarne all’inizio di dicembre, adesso siamo concentrati nel fare una buona edizione». E comunque all’orizzonte non c’è, per ora, una nuova fatica da regista. Quindi, forse, il tempo per dedicarsi al «Torino Film Festival» resterebbe.

In cima ai pensieri, in questi giorni, c’è la fisionomia della manifestazione, quest’anno molto concentrata «sui temi della famiglia e dell’elaborazione del lutto». E poi gli ospiti in arrivo, dopo Stone, Roman Polanski, protagonista del duetto con il direttore («Sta preparando un film e pensavo che venire sarebbe stata per lui una scocciatura, invece è stato molto disponibile»), ma anche Giuseppe Bertolucci, Peter Del Monte, Marco Tullio Giordana, Paolo Virzì, Zeudi Araya, Jerzy Skolimoswski, Michael Radford, Michael Palin. Tra i fuori concorso, i più attesi sono Dream di Kim Ki-duk, 24 City di Jia Zhang Ke, Filth and Wisdom di Madonna, Of Time and the Cities di Terence Davies, Katyn di Andrzej Wajda. Ma ci sarà gran curiosità anche per la retrospettiva dedicata a Jean-Pierre Melville, «il più americano dei registi francesi» e per gli eventi speciali come la presentazione delle versioni restaurate della Classe operaia va in Paradiso di Elio Petri e di Diario di un maestro di Vittorio De Seta.

 

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