di Margherita Belgiojoso
Grande poco più della Valle d'Aosta, 550 mila abitanti, la minuscola Repubblica da dieci anni chiede l'indipendenza dalla Moldavia. Il suo sogno? Ricongiungersi a Mosca. Sotto un rigido regime, s'industria nei traffici illeciti. Dalle armi alla droga
Due separatiste
mostrano un fac-simile del passaporto russo
Dopo la caduta della cortina di ferro, la Molvania è stato l'unico degli Stati dell'ex Unione Sovietica a conservare i simboli della falce e del martello. Non solo, l'identificazione con i simboli dei lavoratori era tale che si decise di aggiungerne un terzo: la vanga... Così, due anni fa, si leggeva in un libro campione del 'politically-incorrect', bestseller in Italia (Rizzoli) e all'estero: la guida a un paese inesistente, ma che concentrava tutti gli stereotipi dei paesi dell'Est: la Molvania, appunto. Per molti versi l'immaginaria Molvania richiama la Transnistria, una fetta di Moldavia che da dieci anni vuole l'indipendenza, disprezzando i moldavi e anelando a Mosca di cui si sente una sorella lontana. Portando come esempio Kaliningrad, l'enclave russa in terra europea.

Ci sarebbe da sorridere se la Transnistria non fosse una delle dittature più severe del mondo. Uno Stato accusato di traffico di droga, di armi e di prostitute. Un paese con il salario medio di 50 dollari, dove non esiste stampa libera, l'intelligence controlla tutto e dove la gente fa la fame e ha acqua calda una settimana al mese. Una bomba ai confini dell'Europa, visto che dal 1 gennaio 2007, quando la Romania entrerà a far parte dell'Unione europea, la Moldavia diventerà vicino diretto di Bruxelles.

Grande poco più della Valle d'Aosta, la Transnistria ha una popolazione di 550 mila abitanti. Il suo presidente è Igor Smirnov, un ex kolkoziano ritenuto capo del Kgb locale in tempo sovietico, nato e cresciuto in Kamchatka. Nel suo governo c'è un uomo ricercato dalle polizie di mezzo mondo: Vladimir Antufeev, nato a Novosibirsk, che qui si fa chiamare Vadim Sevtov. È condannato per aver ordinato la morte di quattro giornalisti durante gli scontri a Riga nel 1991, ma a Tiraspol è il ministro per la Sicurezza interna. La Transnistria ha una sua bandiera, un suo inno nazionale e una sua moneta: il rublo transnistriano, che impazza tra i numismatici. La sua economia è monopolizzata dalla Sheriff, una multinazionale di proprietà del figlio del presidente, con tanto di logo: una stella a cinque punte giallo-oro. Il suo giro d'affari è di 4 miliardi di dollari, 47 volte il Pil della Transnistria, secondo i calcoli di PeaceReporters. Sheriff controlla casinò, società di comunicazioni, lussuosissime pompe di benzina e uno stadio. Non solo: a vivacizzare la via principale di Tiraspol c'è una boutique che vende tutti i gadget della squadra di calcio locale, ovviamente la Sheriff, dalle felpe ai palloni. Peccato che il prezzo medio per una maglietta è 30 dollari, il 70 per cento di uno stipendio medio. Ma la perla del business Sheriff è una catena di supermercati: negozi con pavimenti di marmo, casse computerizzate, corpulente guardie con walkie-talkie all'entrata. Sugli scaffali ci sono i prodotti della povertà: gli sproti, gustosi pesciolini sott'olio di cui l'Urss si è cibata per sessant'anni, carne in gelatina, cavoli e patate. E tonnellate di tè e vodka, con e senza peperoncino, di marca Sheriff. Le sigarette sono 'for duty free only', o con la dicitura 'for DRC (Repubblica Democratica del Congo) only'. Stessa faccenda per i pochi cibi importati dall'estero, cioccolatini italiani o crackers tedeschi: tutti prodotti di contrabbando. Trafficati illecitamente attraverso le porose frontiere ucraino-moldave.

Ma il vero problema della Transnistria non sarebbero le armi, il cui traffico non è mai stato ufficialmente provato, bensì le cosce di pollo. "Non abbiamo trovato armi, ma quantità enormi di pollo: la Transnistria funge da gigantesca 'lavatrice', importa merci di dubbia provenienza, le rimpacchetta, vi appone il proprio stampo e le rivende a mezza Europa dell'Est. Sconvolgendo le quote di importazione ed esportazione riservate ai vari paesi", dice Gianpiero Catozzi, funzionario dell'Eubam, la missione dell'Ue per l'Assistenza alle Dogane di Ucraina e Moldavia. Da un anno tutto questo non si può più fare: la Transnistria per esportare è costretta ad avere il nulla-osta della dogana di Kishinau. E quindi, implicitamente, a riconoscerne l'autorità. Molti protestano e i locali additano il nulla-osta come 'ekonomiceskaya blokad', e lo ritengono una delle cause della crisi economica.
Il monumento ai caduti
negli scontri con i separatisti
La Transnistria, non essendo riconosciuta internazionalmente, non dovrebbe avere frontiere con la Moldavia. Eppure, là dove la cartina geografica segna un fiume e poi chilometri di piana est-europea, ci si imbatte in tre diverse dogane. La prima, transnistriana; la seconda russa; la terza, moldava. I russi sono i 'peacekeepers' che Mosca ha messo lì dopo la guerra civile tra Transnistria indipendentista e Moldavia. Avrebbe dovuto ritirarli nel 2002, invece ci sono ancora. Metà dei passaporti che transitano per queste frontiere sarebbero illegali, soprattutto quelli russi, distribuiti a iosa in segno di gratitudine a un paese così controcorrente dopo le recenti smanie di indipendenza di Georgia e Ucraina. Ma quasi nessuno osa lamentarsi del governo transnistriano. Chi lo fa, lo fa dall'estero, nella relativa sicurezza di Mosca. "Sono un 'gastarbaiter', un lavoratore clandestino, qui, ma a Tiraspol è assolutamente impossibile guadagnarsi da vivere. I politici sono tutti corrotti e affamano il popolo", dice un ragazzo. E aggiunge : "Anche se ufficialmente tutti lo negano, in Transnistria c'è un florido commercio di armi, tra quelle prodotte localmente e quelle abbandonate dal XIV battaglione dell'Armata Rossa. Vengono caricate su camion e trasportate nel porto di Ilichevsk, sul mar Nero, senza attraversare alcun controllo, e da qui spedite al resto del mondo".

La Transnistria è un piccolo mondo antico di stampo sovietico, assolutamente isolato dall'esterno, non contento e non disperato. Sembrano scene estratte dai film di propaganda sovietica: poche automobili, tutte sferraglianti Zhiguli, larghe strade tappezzate di manifesti di estetica sovietica, dorate spighe di grano intrecciate a grappoli d'uva e soli che sorgono, falci e martelli dipinti di colori vivaci, palazzoni-alveari con intonaci a pezzi, aiuole ordinate piene di fiori, ragazze sorridenti abbigliate con vestiti di poco prezzo e trucco pesante. Gli stranieri non esistono, ma appena la gente sente qualche parola di italiano, racconta che metà di loro ha una sorella o almeno una vicina di casa in Italia come badante. Davanti alla discoteche e ai bar ci sono cartelli con l'icona sbarrata di pistole, Kalashnikov e bombe a mano: vietato entrare con armi. La calma che regna a Tiraspol è infatti solo un'impressione, alcuni mesi fa ci sono stati due attacchi terroristici su due autobus che hanno fatto dieci vittime. La gente non ne parla, e non ha idea del perché sia successo e chi possa essere il mandante. Non una parola sui giornali europei. Per il mondo questa piccola e un po' irreale Repubblica non esiste. Eppure il 12 settembre scorso c'è stato un referendum, illegale secondo la legge internazionale, che chiedeva ai cittadini di scegliere se rimanere indipendenti e poi in futuro riunirsi alla grande madre Russia, o se annettersi alla Moldavia. Il verdetto è stato netto: il 97 per cento della popolazione è per la Russia, e gli analisti concordano nel dire che si è trattato di un voto regolare.

La popolazione della Transnistria anela a Mosca per una semplice regione: è russa. Per la stragrande maggioranza si tratta di gente nata e cresciuta nelle province più lontane dell'impero russo, che successivamente si è trasferita nell'Urss occidentale. Shenia ha 75 anni e fa il tassista tra Kishinau, Moldavia, e Tiraspol. È nato a Krasnoyarsk, in Siberia, poi con sua moglie sono venuti in vacanza a Tiraspol nell'80 e non se ne sono più andati. "Prima qui si viveva benissimo. Oggi no, ma dove possiamo andare, ormai?". Sua figlia vive a San Pietroburgo, un figlio gli è morto in Afghanistan, l'altro in Cecenia. Sua madre era infermiera sul fronte durante la Seconda guerra mondiale, suo padre è morto su quello stesso fronte. "Siamo russi", si accalora Shenia, "non vogliamo ubbidire a Kishinau. Vogliamo essere indipendenti". Il 10 dicembre si sono svolte le elezioni presidenziali. La vittoria di Smirnov era scontata. Anche se a trionfare, più che il presidente, amato quanto discusso, è stata la Grande Madre Russia.