di Peter Gomez e Marco Lillo

Pistole della nostra polizia. Rivendute all'Iraq. E trovate anche in mano alla guerriglia. E ora una legge rischia di bloccare l'inchiesta

Ci voleva un premier come Silvio Berlusconi per mettere in mano al tedoforo, al posto della fiaccola, una bella pistola fumante. Una Beretta calibro nove, per l'esattezza. È accaduto l'8 febbraio, quando nel decreto per le Olimpiadi, approvato dalla maggioranza a colpi di fiducia, è spuntato un articolo che non riguarda le gare di sci, quelle di bob o la sicurezza dei Giochi, ma la compravendita delle armi da guerra. Due righe in tutto con cui il governo permette ai fabbricanti di mitragliatrici e fucili anche "la riparazione delle armi prodotte" e "le attività commerciali connesse". Nove parole dietro le quali si nasconde l'ennesima legge ad personam, anzi ad armam. Una legge che salva le pistole di un caro amico e sostenitore del leader di Forza Italia, Ugo Gussalli Beretta, patron dell'omonima industria di Gardone Val Trompia, e soprattutto tenta di mettere la sordina a uno scandalo con pochi precedenti: la svendita da parte del Viminale di migliaia di pistole della Polizia che oggi sparano in Iraq non solo in mano alle forze dell'ordine locali, ma anche in quelle degli amici di Al Zarqawi.

Per capire che cosa è successo bisogna andare a Brescia, in Procura, dove da più di un anno lo storico stabilimento è sotto inchiesta per una storia nera, fatta di armi rubate o senza numero di matricola, di società probabilmente vicine ai servizi segreti e di triangolazioni con la Gran Bretagna. Una storia che preoccupa la Beretta (in caso di condanna potrebbero essere messe in discussione le licenze di fabbricazione) e provoca molti imbarazzi anche a Roma, al ministero dell'Interno. Al centro di tutto, come 'L'espresso' è in grado di rivelare, ci sono più di 40 mila Beretta della Polizia italiana, metà delle quali già approdate attraverso un giro tortuoso e, secondo i magistrati, illegale in Iraq, in parte anche nelle mani degli insorti. Le Beretta in questione erano quelle in dotazione alla Polizia dal 1978. Quando avevano ormai compiuto la loro gloriosa carriera invece di finire dal robivecchi sono state riacquistate dalla società lombarda. Dopo la caduta di Baghdad, in Iraq si erano aperte ricche prospettive di mercato. Bisognava riarmare le nuove forze dell'ordine e le pistole dei nostri poliziotti, rimesse a nuovo in fretta e furia, erano state spedite sul teatro di guerra attraverso una triangolazione con una società britannica. Il tutto, secondo i pm di Brescia, in violazione delle norme sul commercio di armi.

Il diavolo però fa le pentole, ma non i coperchi. Così l'affare comincia a venire alla luce il 6 dicembre del 2004. Quel giorno viene arrestata una dipendente della Beretta mentre tenta di portare una calibro nove fuori dalla fabbrica. È un'impiegata addetta al magazzino. Ha accesso ai registri informatici della società e i carabinieri, che le trovano in casa altri due revolver, ipotizzano un suo legame con la malavita organizzata calabrese. Inizialmente la donna viene accusata di aver asportato tra marzo e dicembre ben 152 pistole. Ma agli investigatori basta poco per rendersi conto che all'interno del magazzino si sono verificate numerose irregolarità che non dipendono da lei. Come si legge nell'ordinanza del tribunale del riesame, con cui è stato confermato il sequestro della seconda tranche di 15.478 pistole semi-automatiche dirette in Iraq, la Beretta custodiva "armi prive di matricola o con matricola abrasa o ripunzonata, armi prive di punzoni del Banco Nazionale Prove", mentre dal magazzino erano spuntate fuori anche alcune delle 152 pistole che secondo il registro risultavano rubate. In un caso poi viene anche sfiorata la spy-story. Tra le armi conservate in azienda ce ne è una il cui furto risulta denunciato dai nostri servizi segreti nel 1980. È la stessa pistola o sono due armi diverse? Una sola cosa è certa. In fabbrica le regole non sono rispettate. Durante una perquisizione vengono scoperte addirittura centinaia di Beretta 92S "sprovviste di numeri di matricola ed altre che non risultano prese in carico sul registro informatico di Pubblica sicurezza della ditta (che al contrario di quanto accade normalmente viene firmato non dalla questura ma dal sindaco di Gardone ndr)". Un'armeria fantasma in piena regola.
La vicenda probabilmente si sarebbe chiusa qui se, il 14 febbraio del 2005, i carabinieri di stanza in Iraq non avessero comunicato che "alcune pistole Beretta 92S" erano state "rinvenute in possesso di forze 'ostili'". A quel punto l'intera storia comincia a scottare. E minaccia di diventare un caso internazionale. Molte delle armi sequestrate agli insorti risultano "vendute tra il 1978 e il 1980 dalla Beretta al ministero dell'Interno" italiano. Perché? Bastano poche settimane per svelare l'arcano: tra il febbraio del 2003 e l'aprile del 2004, 44.926 pezzi dichiarati "fuori uso" dal ministero erano stati ceduti alla Beretta nell'ambito di due contratti per una nuova fornitura. La società di Brescia le aveva poi 'rigenerate' e tra il giugno e il luglio del 2004 ne aveva rivendute 20.318 a una società inglese, la Super Vision International Ltd, insieme a 20 mila carrelli di ricambio "per un controvalore di un milione e 398 mila e 826 euro".

Beretta aveva richiesto alla prefettura di Brescia l'autorizzazione all'esportazione. Aveva ricevuto l'ok, ma sui documenti non risultava il nome della ditta acquirente (la sconosciuta Super Vision), ma quello di una seconda azienda con una sede prestigiosa e una storia ventennale: la Heltston Gunsmith. Secondo gli investigatori non è una semplice casualità. Se fosse emerso il nome della Super Vision la licenza all'esportazione sarebbe stata negata o ritardata. Il prefetto, come spiegano i giudici, deve infatti poter assumere informazioni sull'affidabilità dell'acquirente e in questo caso non ha potuto "sapere in anticipo la reale destinazione finale della merce, ovvero l'Iraq, ed eventualmente sospendere l'esportazione".

Il commercio delle armi è regolamentato in maniera severa. A partire dal 2001 i controlli sono diventati ancora più stringenti. Da tre anni a questa parte poi il ministero dell'Interno richiede sempre il certificato 'end user' (utilizzatore finale) e soprattutto lo valuta, incrociandolo con le relazioni del Sismi sulla situazione politica del paese realmente destinatario delle armi. Proprio per questo il ministero ha bloccato grosse forniture Beretta in Centramerica, Medio Oriente e Asia. La cosa, ovviamente, ha infastidito molto l'azienda. Ugo Gussalli Beretta, un uomo talmente legato da rapporti di amicizia a Berlusconi e alla famiglia del presidente americano Bush da essere stato proposto come ambasciatore italiano a Washington (vedi scheda in questa pagina), ha attivato i suoi canali politici per lamentarsi della burocrazia divenuta, a suo dire, troppo rigida. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta si è così rivolto al ministro Giuseppe Pisanu che ha fatto pressioni sul proprio apparato. Ma le procedure non sono cambiate.

Un bel problema per la Beretta che a partire dal 2003, con la caduta di Saddam Hussein, vuole finalmente rientrare in un mercato precluso da anni. Grazie all'accordo con il ministero dell'Interno vengono ritirate a un prezzo bassissimo, pare inferiore ai dieci euro, le vecchie pistole (qualificate come 'fuori uso' anche se spesso sono perfettamente funzionanti) e già in questo caso ci si muove con disinvoltura. I quasi 45 mila pezzi arrivano a Brescia senza che il ministero della Difesa (come previsto da una legge del 2000) ne abbia deliberato la dismissione. Da questo punto di vista, secondo i giudici, "la stessa cessione delle armi da parte del ministero (dell'Interno, ndr) appare illegale". Non solo: Beretta non ha più dal 2002 la licenza per riparare le armi. Quindi non può nemmeno rimetterle in funzione per rivenderle. L'azienda non se preoccupa. Comincia le spedizioni e solo quando la merce è già partita chiede per via ufficiale di esportare in Iraq armi destinate alla Cpa (Coalition Provisional Authority), il governo provvisorio di Baghdad. Ma, di fronte alle domande di chiarimenti, rinuncia. E, proprio in quel periodo, conclude la triangolazione con il Regno Unito.

Poi iniziano i problemi. Prima l'arresto della dipendente infedele. Quindi il ritrovamento da parte dei carabinieri delle nostre vecchie armi impugnate dagli insorti. Evidentemente qualcosa in Iraq è andato storto. Alcune Beretta 92S sono passate di mano. Nel caos del dopo Saddam la polizia locale le ha cedute alla cosiddetta resistenza. L'11 febbraio del 2005 Pietro Beretta, il figlio di Ugo, annuncia che l'azienda "è vicina" ad aggiudicarsi dei contratti di fornitura per la polizia e il nuovo esercito iracheno, ma spiega che "le procedure di acquisizione, attraverso i contractor, non sono proprio semplici". In realtà, come dimostra l'informativa dei carabinieri redatta solo tre giorni dopo, molte Beretta già sparano a Baghdad.
A quel punto l'azienda di Brescia si trova di fronte a un mare di guai. Il 20 aprile la magistratura dispone il sequestro delle restanti 15.478 vecchie 92S ancora in magazzino ma già vendute e pagate dall'inglese Super Vision International ltd. Una settimana dopo Ugo Gussalli Beretta presenta ricorso al tribunale del riesame. In ballo non c'è solo un affare valutato complessivamente più di due milioni e mezzo di euro. C'è molto di più. Un eventuale processo e un'eventuale condanna potrebbe portare al ritiro della licenza di fabbricazione. E se la licenza dovesse essere ritirata la Beretta dovrebbe essere venduta a un'altra società in regola. Davanti ai giudici della prima sezione penale del tribunale l'azienda si difende così con le unghie e con i denti. Sostiene che avendo già in mano una licenza che gli permette di fabbricare armi, detenerle e poi venderle, non era necessario richiederne una seconda per ripararle e commercializzarle. Aggiunge che le Beretta 92S non vanno considerate armi da guerra (e quindi soggette a particolari restrizioni). Afferma di "aver notiziato il capo della Polizia della destinazione finale delle pistole". I giudici del riesame le danno però torto su tutta la linea. Anche per loro sono state violate "le norme in materia di acquisto, riparazione ed esportazione". Il sequestro delle pistole è confermato.

Si cominciano così a battere altre strade. Tutte politiche. La Beretta insiste col ministero nel chiedere la semplificazione delle procedure e Pisanu preme sull'apparato. Poi si apre uno spiraglio: il decreto sulle Olimpiadi. All'improvviso il governo cambia la legge: chi fabbrica pistole può anche ripararle e commercializzarle. Poco importa se già il tribunale aveva spiegato quale fosse la ratio di una norma "che mira a proteggere l'ordine pubblico interno e internazionale ponendo sotto rigido controllo ogni passaggio e trasferimento di ogni singola arma". Una legge che se ignorata porterebbe all'assurdo di rendere non punibile la commercializzazione, da parte di chi ha una generica licenza di detenzione e vendita di armi, di pistole e fucili provento di furto. In molti tirano un sospiro di sollievo. E non solo a Brescia, ma anche a Roma, dove decine di migliaia di pistole sono state vendute come "fuori uso", quando bastava un po' di grasso per permettere loro di ricominciare a sparare.