di Antonio Carlucci
Si annunciava un'estate ricca di soldi e turismo. Adesso nella capitale libanese regna il terrore. E chi può fugge dal paese
Macerie di un villaggio libanese
Fouad, il capo dei camerieri del ristorante Le Pêcheur, è seduto, il mento appoggiato sulla mano, e guarda il mare dalle finestre del locale che si trova sulla Corniche, il lungomare di Beirut. "Abbiano chiuso, non c'è pesce da giorni, nessuno va a pescare e non ci sono clienti", è la sua cantilena. Accanto a Le Pêcheur è deserta La Plage swimming club, che in una giornata d'estate da manuale presenta ombrelloni e lettini prendisole chiusi e accatastati in un angolo, in attesa di una stagione balneare rinviata sine die. In mare, al largo, si intravedono solo le sagome scure delle navi da guerra americane, inglesi, greche, francesi, italiane. Arrivate fin qui per il grande esodo di turisti e libanesi con doppio passaporto, innescato dalla guerra tra i miliziani di Hezbollah e l'esercito di Israele che ha fatto relativamente poche vittime tra i militari delle due fazioni, ma ha pesantemente coinvolto la popolazione civile a cominciare da donne, bambini e anziani su entrambi i fronti. In Libano si assiste a un esodo biblico di oltre 700 mila persone che con ogni mezzo cercano una via di fuga. Un'emergenza umanitaria che apre un ulteriore ferita nel dramma di questo paese.

Eppure, ancora martedì 11 luglio, la Corniche fotografava un Libano totalmente diverso. Affollata a ogni ora da giovani (e non) di tutte le etnie e religioni, le ragazze con il velo islamico insieme a quelle con i jeans dalla vita che più bassa non si può e l'ombelico bene in vista, i locali pieni fino a tarda notte, i turisti - soprattutto arabi - a godersi un angolo di Medio Oriente non oppressivo nei costumi e nelle regole e voglioso di aprirsi al mondo. Tutta la città era al centro di una frenetica attività immobiliare, con banche e società di investimento in affanno per stare dietro ai clienti, l'import-export correva a ritmo sostenuto, si creavano nuovi lavori, venivano aperti nuovi negozi di lusso.


La rinascita di Beirut è stata seppellita in una notte dai colpi dei missili sganciati da aerei, elicotteri e navi di Israele in risposta alla cattura di due soldati dello Tsahal ai confini tra Libano e Israele e alla pioggia di razzi targati Hezbollah (Partito di Dio) su villaggi e città del nord israeliano. "Il nostro sogno è durato poco più di un anno", sospira Samir Frangié, deputato cristiano-maronita e convinto che la normalità libanese può essere soltanto figlia di una riconquistata, totale indipendenza dalle influenze straniere. Oggi Beirut, seguita dall'intero Libano con i suoi 4 milioni di abitanti divisi in 19 etnie e confessioni religiose (le principali: sciiti, sunniti, cristiano-maroniti, drusi), ha visto riapparire i fantasmi di un passato buio: quello della guerra civile del quindicennio 1976-1991, dell'occupazione siriana e di quella israeliana nel sud, delle faide dei clan familiari con le loro bande armate a seminare il terrore, dell'economia e dello sviluppo bloccati e sostituiti dal fiorire di ogni tipo di traffici illegali.

Nelle vie di Hamra, la strada che taglia in due Beirut ovest (dove sono in maggioranza i musulmani) la vita si è accorciata di colpo. Comincia tra le 10 e le 11 del mattino, quando solo i negozi più popolari decidono di tirare su le saracinesche. Ma già alle 14 inizia l'esodo dei coraggiosi e nel giro di 30 minuti Hamra Street e tutte le vie intorno ai rioni di Manara, Jomblatt, Kantari e Jamaa si svuotano completamente. L'unico che non ha cambiato abitudini è il proprietario di un negozio di vestiti per uomo e donna che si compiace di esporre in vetrina cinque manichini maschili e cinque femminili coperti da un mini telo di plastica con il nome del suo esercizio, Eldorado shopping center. "Non ho mai pensato di chiudere, qui ad Hamra non accadrà mai nulla e io continuo a lavorare", dice sicuro della sua scelta. In effetti, in queste strade, l'unico segno della guerra (a parte l'eco minacciosa delle detonazioni dei missili che piovono nel sud della città) è il faro che svetta sulla punta Ras Beirut proprio accanto al Riviera Yacht Club. È ancora in piedi, ma è spento. Il primo giorno di guerra un elicottero israeliano ha centrato e messo fuori uso la lanterna con un solo razzo.
Neanche una lira libanese di danni ha registrato Solidàre, la zona della capitale che prende il nome dalla società immobiliare che vi costruisce. Qui c'è il cuore della politica, con il Parlamento eretto sulla collina più alta con intorno tutti i ministeri, e della finanza, con i palazzi nuovi di zecca che ospitano le sedi di banche e società di investimento. Qui svettano i grattacieli appena finiti o ancora in costruzione, pronti a trasformarsi in condomini di lusso per i ricchi dell'Arabia Saudita, del Qatar, degli Emirati che cercano un mondo più libero a meno di due ore di aereo dalle loro case. "Israele non ha messo tra gli obiettivi questa zona perché non poteva suscitare le ire di chi ha deciso di investire in questo Paese ed è estraneo alla contesa", dice a 'L'espresso' Oussama Safa, uno sciita che dirige il Centro libanese di studi politici. Negli ultimi anni Beirut Downtown ha maneggiato oltre 2 miliardi di dollari di investimenti stranieri, quasi tutti arabi. E il Libano vedeva alle porte la migliore stagione turistica della sua storia con l'arrivo di oltre un milione e 600 mila visitatori.

Solidàre, con le sue strade grandi e piccole pulite come non lo sono in nessuna parte della capitale, con le sue vetrine tirate a lucido di negozi di antiquariato e di griffes famose in tutto il mondo, con l'annesso Quartier des artistes che, vuoto com'è, sembra il padiglione di una Disneyland abbandonata, è la rappresentazione migliore della situazione libanese. Una costruzione quasi perfetta, dove continuano a stare uno accanto all'altro i differenti pezzi della storia del Paese senza formare un disegno unitario. Intorno alla piazza dei Martiri, il luogo che ha visto centinaia di migliaia di libanesi scendere per le strade chiedendo la cacciata dei siriani dopo l'attentato al leader sunnita Rakik Hariri, si guardano le colonne d'epoca romana, le case coloniali restaurate e quelle in disfacimento, i resti sventrati di un cinema che si trovava sulla Linea Verde, il confine tra i combattenti cristiani e musulmani durante la guerra civile, e i simboli religiosi: la nuovissima moschea sunnita Muhammad Al-Amin e le chiese maronita, ortodossa e cattolica. Ma quella rappresentazione di un Libano riunito tutto insieme in meno di un chilometro quadrato (mancano, e forse non è un caso, i simboli sciiti) nasconde mille divisioni e mille politiche tra loro contrastanti. "In tutti questi anni quello che Hariri e i suoi alleati hanno costruito è stato demolito da Hezbollah", dice il politologo Safa.

Il risultato più tragico di ciò che il Libano è diventato, a partire dal 12 luglio, è sotto gli occhi tutti a Beirut sud, quando la superstrada Hazmiyé si interrompe all'altezza del ponte Hadi Nasrallah (prende il nome dal figlio del capo di Hezbollah, 'martire' della causa), spezzato in due da una bomba sganciata da un F16 israeliano. L'onda d'urto ha danneggiato tutti i palazzi intorno. Le case sono abbandonate, per la strada passa ogni tanto una macchina, il silenzio è totale. Appena arriva, Ghassan Darouish, portavoce di Hezbollah, racconta: "I civili sono andati tutti via, queste case non ospitavano altro che famiglie normali". E con il suo arrivo appaiono, e subito scompaiono, a ogni angolo di strada giovani in motorino: sono le staffette di Hezbollah che controllano chiunque si muova in quelle vie.

Appena ci si addentra nelle strade di Borj el Barajné, il cuore del regno del Partito di Dio è segnato da una barriera di terra fresca con un cartello bianco che avverte: 'Pericolo di morte'. Qui la guerra mostra il suo volto. Interi palazzi tra gli otto e i dieci piani sono stati polverizzati dalle 'smart bomb', le bombe intelligenti. Tutto quello che si trova intorno a questi edifici, altre costruzioni civili con negozi e uffici, è seriamente danneggiato, forse in modo irreparabile. Riprende la parola il portavoce di Hezbollah: "Siamo pronti a una guerra infinita. Se noi non vinciamo, tutti gli arabi perderanno". Non sembra cambiato molto dagli anni Cinquanta in poi, quando, ogni volta che un leader arabo decideva la guerra a Israele, lanciava il monito "nessuna voce deve udirsi sopra la battaglia", un modo per arrogarsi il diritto di parlare a nome di tutti gli arabo-musulmani.
Il rappresentante del Partito di Dio dice che non ci sono state vittime civili in questa area, che sono andati tutti via prima. Ma chi conosceva e frequentava la zona prima della guerra ci indica uno dopo l'altro la funzione degli edifici ridotti in polvere: la segreteria generale di Hezbollah, l'ufficio politico, l'assemblea consultiva, la televisione Al Manar, perfino la rappresentanza in Libano di Hamas, oltre alle residenze dei grandi capi dell'organizzazione. L'obiettivo martellato con tonnellate di esplosivo dagli israeliani è dunque il quartiere generale del partito di Hezbollah, che in questi anni con l'aiuto finanziario e logistico della Siria e poi dell'Iran, e agitando la bandiera del buon musulmano che combatte la guerra santa contro Israele, ha costruito non solo una forza militare, ma anche un consenso politico e sociale, avendo destinato parte delle risorse all'educazione, alla sanità, all'assistenza verso i più poveri (nel Parlamento libanese hanno 14 deputati e nel governo due ministri cui bisogna aggiungere i 15 eletti con il partito sciita di Amal).

Quando si entra nella parte più vecchia del sobborgo di Borj el Barajné, dove i palazzi in cemento cedono il posto a case di due o tre piani in tufo intervallate da costruzioni più recenti, la guerra sembra di nuovo lontana mille miglia. C'è il commerciante che accompagna la vendita di una pera e di una bottiglia di acqua con un "Allah protegga Nasrallah", c'è il rifugio organizzato nei sotterranei di un palazzo più resistente, dove è rimasta solo un'anziana donna e una tv sintonizzata su Al Manar. Ma in quei vicoli ci sono anche le rovine di una costruzione in cemento armato - almeno tre piani sottoterra, altri tre fuori - sbriciolata e annerita da sette missili israeliani. Il verduraio accusa: "Hanno raso al suolo una moschea in costruzione". Ma per Israele quello era il bunker destinato a proteggere Hassan Nasrallah e il vertice di Hezbollah.

Dalla periferia sciita alle colline che circondano Beirut il panorama cambia completamente. A Rabieh, dove abita la ricca borghesia, ville in marmo e pietra bianca, giardini curatissimi. Misure di sicurezza personali elevate. Fino alla sommità sulla sesta strada dove vive il generale Michel Aoun, cristiano maronita, ex comandante dell'Armée del Libano, in prima linea contro siriani e musulmani. Per arrivare da lui ci sono due check point e una ventina di uomini armati più un controllo finale anche sulle penne e i taccuini. Aoun è un emblema vivente delle contraddizioni libanesi: tornato in patria dopo 15 anni di esilio a Parigi, si è messo in testa senza riuscirci di fare il presidente del Libano. E con chi si è alleato? Con gli Hezbollah filo siriani.

A qualche chilometro in linea d'aria c'è l'altra collina del potere, Baabda, dove sorge il palazzo presidenziale e un'importante caserma dell'esercito. Area rimasta fuori dal conflitto. Con l'eccezione di venerdì 21 luglio. Una bomba da 400 chili ha centrato un ponte in un punto militarmente insignificante. Un avvertimento degli israeliani al governo: solo due ore prima il ministro della Difesa Elias Murr aveva minacciato il dispiegamento dei soldati a sud. Riscendendo verso il centro di Beirut si attraversa gran parte del quartiere cristiano, la cui estraneità al conflitto è segnalata dall'apertura regolare e dall'affluenza al Cafè Paul.

Eccola Beirut tornata alla guerra. Che ha dato segni di normalità lunedì 24 luglio, con il traffico ripreso, più negozi aperti, la gente che provava a rientrare in città dalle colline. La speranza riposta nella Conferenza di Roma è stata rafforzata dall'arrivo a Beirut di Condoleezza Rice. Il Segretario di Stato Usa portava una prima proposta che metteva assieme cessate il fuoco, dispiegamento di una forza militare internazionale, spostamento nel sud dei soldati libanesi, arretramento delle milizie di Hezbollah, rientro a casa degli sfollati, scambio dei prigionieri, restituzione al Libano delle fattorie di Sheba. La fiducia in un accordo ha rianimato la gente di Beirut. Ma cosa accadrà nella società libanese dopo che le armi torneranno negli arsenali? Il politologo Safa azzarda una previsione: "Di certo qualcuno dovrà rispondere di quanto è accaduto. Non lo farà Israele e non lo faranno gli Stati Uniti. Non lo deve fare neanche il governo del Libano. Così prima o poi il conto lo dovrà pagare Hezbollah".