di Giampaolo Pansa
La faccenda degli spioni informatici sa di sporco o di cialtronismo. Ma rendere noti i redditi da un certo livello in su sarebbe pedagogico
Silvio Berlusconi al No Tax Day
Qualcuno ricorda l'imposta di famiglia e i suoi elenchi? Forse soltanto i più adulti fra i nostri lettori sanno di che cosa parlo. Il sottoscritto ne conserva un'ottima memoria. Quell'imposta veniva riscossa dal comune di residenza. Ed era l'amministrazione cittadina a definirla. Con un accertamento sul singolo contribuente che teneva conto sia del reddito prodotto nell'anno, sia di quello che si chiamava il tenore di vita.

Ma il bello veniva dopo. Ed era rappresentato dalla lista dei contribuenti per ognuno dei quali il Municipio (allora si diceva così) stabiliva la cifra che ne indicava la posizione fiscale, ma anche la collocazione nella scala economica e sociale della città. Insomma, per dirla alla buona, gli elenchi permettevano di sapere chi era il più ricco in un comune e, via via, chi lo seguiva. In quel tempo, parlo degli anni Cinquanta e Sessanta, il concetto di privacy fiscale era del tutto ignoto. Prevaleva un senso della giustizia contributiva che oggi apparirebbe quasi barbaro: rendere conto alla comunità della condizione economica dei più abbienti. Che di solito erano anche i cittadini più in vista e i più potenti.

Una volta all'anno gli elenchi dell'imposta di famiglia venivano resi pubblici. I giornali locali li stampavano. E la graduatoria diventava materia di discussione dappertutto. Spesso erano dibattiti incavolati. Guarda l'industriale X, il primario Y, il commerciante Z, il notaio o l'avvocato W: possibile che guadagnino così poco? Ci deve essere sotto qualcosa! Il sindaco o l'assessore ai tributi sono stati di manica larga! Quei redditi gridano vendetta!

Quando andai a lavorare al 'Giorno' (era il 1964) il direttore Italo Pietra mi disse subito di essere molto interessato agli elenchi dell'imposta di famiglia. Li considerava, per mille ragioni, un fatto di democrazia fiscale e voleva pubblicarli sul giornale. Allora facevo l'inviato per l'edizione lombarda del 'Giorno'. E Pietra mi sollecitava sempre a darmi da fare per scovare le graduatorie nelle città più ricche della regione: Brescia, Bergamo, Como, Varese. Non era sempre facile. Gli elenchi sparivano subito dopo essere rimasti consultabili per ventiquattro ore, non di più. Ma se un cronista ci dava dentro, prima o poi ci arrivava. Pietra li stampava, talvolta a puntate. All'inizio degli anni Settanta, l'imposta comunale scomparve, assorbita dalla riforma fiscale. Per qualche tempo, il ministero delle Finanze diffuse un Libro Bianco e un Libro Nero: il primo con i nomi dei contribuenti fedeli, il secondo con quelli degli evasori. Poi i libri svanirono.

Queste ombre del passato mi sono riapparse dopo la scoperta degli spioni, o dei guardoni, che lavorando con il computer s'insinuavano nell'archivio dell'Agenzia delle Entrate. Alla ricerca delle posizioni fiscali di questo o di quel big, primi fra tutti Romano Prodi e Silvio Berlusconi. Ma anche di personaggi dello sport, dello spettacolo e di arti varie. Siamo all'emergenza democratica, come ha sostenuto il diessino Marco Minniti? O dentro una squallida vicenda di curiosoni privati? Francamente non so dirlo. Però, comunque sia, la faccenda puzza. Non mi piace. Sa di sporco o di cialtronismo, nel caso che gli spioni o i guardoni siano impiegati o funzionari del fisco. Dei quali, il vice ministro all'Economia,Vincenzo Visco, farebbe bene a liberarsi subito.

Tuttavia, questa storia m'ispira un'idea pazza. La espongo così: perché non rendere pubblici gli elenchi dell'Irpef, per lo meno per i redditi che superano una certa soglia? Ossia da una cifra dichiarata in su? Questa sì che sarebbe una decisione rivoluzionaria in un'Italia piena di evasori fiscali. Tutti potrebbero fare confronti interessanti e pedagogici. Tra contribuente e contribuente, tra reddito e reddito. Chi paga le tasse sino all'ultimo euro non avrebbe nulla da temere. Avrebbe caso mai molto da ridere, sia pure da ridere amaro. Rendendosi conto di essere uno dei più agiati della propria città. E di constatare che, in coda a lui, e spesso molto in coda, vengono dei signori che si presentano quasi in bolletta, pur essendo dei ricconi in abito simulato.
Immagino le obiezioni alla mia idea pazza. Tanti strillerebbero alla violazione della sacrosanta privacy. Altrettanti piangerebbero sulla sorte di chi sta in testa agli elenchi, indicati alla criminalità come soggetti da colpire con furti, rapine e sequestri.

Non credo che queste bande aspettino i dati fiscali per scegliere chi aggredire. Di solito, le gang ne sanno assai più di qualunque agente delle tasse. In compenso i vantaggi sarebbero molti. Pensate all'importanza di comparare contribuente e contribuente. E pensate che, in questo modo, verrebbero messi fuori gioco gli spioni, e soprattutto gli evasori. Comunque, chi è contrario alla mia proposta può dormire sonni tranquilli: nessun governo oserà metterla in pratica. E tutto rimarrà nel buio del segreto. Sia pure di un segreto tanto facile da violare.