di Riccardo Bocca
Il gip sarà cambiato. Il processo non si farà. Così Morrone (Udeur) rassicurò il ds Pacenza. In un colloquio in carcere. Intercettato dai pm
Cosenza
È la mattina dello scorso 18 agosto, nella sala colloqui del carcere di Cosenza. Seduti uno di fronte all'altro ci sono Franco Pacenza, capogruppo ds al consiglio regionale della Calabria, e il deputato dell'Udeur Ennio Morrone. Il primo è stato arrestato con l'accusa di 'concussione mediante induzione', per avere imposto assunzioni a due aziende finanziate dall'Unione europea e dalla Regione Calabria, in cambio di copertura politica. Il secondo è venuto a portargli la sua solidarietà. Insieme sono protagonisti, dentro quella stanza, di un dialogo che esula da qualunque consuetudine. E che viene registrato da una microspia dei magistrati. "Franco", si rivolge Morrone a Pacenza parlandogli di Giuseppe Cozzolino, il pubblico ministero che ha chiesto il suo arresto: "Cozzolino è un ladro... Cozzolino è un bastardo...". "Cozzolino...", lo interrompe per un istante Pacenza. "Ha trent'anni", prosegue Morrone, "è di Napoli... Sappiamo dove se la fa...".

Parole pesanti, pesantissime. E c'è di più. Convinto di non essere ascoltato, Morrone prosegue nelle rassicurazioni: "Tanto il gip sarà trasferito il 20 (agosto, ndr)... È un gip distrettuale... Ti posso garantire", dice inoltre, "che tutti gli amici (...) Adamuccio, Nicola (Nicola Adamo, vicepresidente ds della regione Calabria, inquisito per un giro di finanziamenti comunitari, ndr), Rino, Spagnolo, sono (...) tranquilli. E comunque ne esci senz'altro. Io mi devo muovere, Fra'". "Chiamiamo a Serafini" (Alfredo, procuratore capo di Cosenza, ndr), propone Pacenza. E Morrone: "Ho chiamato, a Serafini: perché tu non mi hai avvertito?".

Il quadro che emerge è sconcertante. Un parlamentare della Repubblica, compagno di partito del Guardasigilli, che durante una visita in carcere spiega al collega ds di stare tranquillo. Perché è certo che ne uscirà senz'altro. Perché, in ogni caso, della questione è al corrente il procuratore capo. E poi comunque sanno dove se la fa, il pm "ladro e bastardo". L'altra faccia della giustizia; il sotterraneo rapporto tra politica e magistratura. L'ultimo atto di una storia in cui di normale c'è ben poco, e dove gli uomini in gioco sono di prima grandezza: nazionale. E si fanno sentire. Dopo l'arresto di Pacenza, a sostenere la sua innocenza è il sottosegretario all'Interno Marco Minniti, il quale ha "la sensazione che si tratti di un errore giudiziario". Altrettanto perplessa è la deputata di Forza Italia Jole Santelli, ex sottosegretario alla Giustizia, che ipotizza "modalità vessatorie" nell'arresto. E ancora oltre si spinge un gruppo di parlamentari, dai Ds alla Margherita fino al Partito democratico meridionale di Agazio Loiero, i quali si piazzano davanti al carcere di Cosenza e dichiarano: "Da qui non ci muoviamo, senza Franco non andremo via!".

L'unica voce contraria è quella del ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, "stupito per la solidarietà espressa all'esponente della Quercia". Ma è a dir poco isolato. Gli amici di Pacenza invocano subito le dimissioni dell'ex pubblico ministero. La moglie di Pacenza racconta l'arresto del marito, la sua espressione "di meraviglia, di una persona che sta pensando 'non è possibile, forse è uno scherzo'". E a tutti viene il dubbio: fosse una bufala micidiale? In attesa di risposte certe, ci sono quelle provvisorie. Ovvero la ricostruzione di una vicenda che inizia nel 1998, quando l'imprenditore Franco Alfonso Rizzo, nato in Germania da famiglia di Corigliano (Cosenza), presenta due domande di contributo pubblico alla Sviluppo Italia Calabria. A trarne beneficio sono la Printec international srl e la Sensitec srl, create per la produzione di sensori per stampanti, cartucce e altro, delle quali Rizzo è socio oltre che rappresentante legale. In totale, un gettone da circa 6 milioni e mezzo di euro suddiviso in tre rate, a fronte del quale è chiesto ai soci (tedeschi e turchi, oltre a Rizzo) un dettagliato impegno: apportare capitali propri, spendere in attrezzature e capannoni, e garantire una determinata quota di produttività e occupazione.
Parametri che, a quanto pare, non vengono rispettati. O almeno così dicono alcuni dipendenti delle due aziende, i quali sporgono denuncia in Procura, spiegando che a fronte dei finanziamenti nulla stanno facendo. Da una verifica dei magistrati si scopre poi che i macchinari acquistati sono ferri vecchi, fuori produzione da anni. E che le relazioni di collaudo sono state taroccate. Quanto basta per provocare, il 17 luglio 2006, l'arresto di Rizzo. E per inguaiare Franco Pacenza, 48 anni, sposato con due figli, brillante carriera da segretario locale della Cgil fino alla carica di capogruppo ds in Consiglio regionale. Proprio lui, racconta Rizzo, gli avrebbe assicurato nel 2000 un appoggio per le pratiche di finanziamento, in cambio dell'assunzione di 'suoi' lavoratori. Non a caso, scoprono gli investigatori, nella sede dei Ds di Corigliano si svolge una curiosa selezione di personale, dove i soci di Printec e Sensitec accolgono i candidati con la frase "Devi ringraziare Franco Pacenza per questa occasione di lavoro...". Sempre a Corigliano, nel 2002, la Eurocal Form srl organizza con soldi pubblici corsi di formazione ai quali partecipa chi è indicato da Pacenza, che in certi casi si presenta senza nemmeno i requisiti previsti dal bando. Diversi dipendenti, inoltre, confermano di essere stati assunti grazie alla segnalazione del capogruppo diessino. E nei sequestri ordinati dalla magistratura, spuntano anche curricula con la scritta "Franco P.".

Ciononostante, il centrosinistra protesta quando Pacenza viene arrestato a metà agosto. E gioisce quando il 29 dello stesso mese il Tribunale della libertà di Catanzaro lo scarcera per mancanza di gravi indizi. "Sono soddisfatto", commenta in quell'occasione il viceministro dell'Interno Minniti. La più illustre tra mille felicitazioni. Meno entusiasta è il sostituto procuratore Cozzolino, il quale presenta un ricorso di 37 pagine. Righe su righe che censurano aspramente l'operato del Tribunale della libertà. Ad esempio per non avere "considerato nella loro interezza le dichiarazioni di Rizzo (...), laddove questi rappresentava di aver subito una significativa pressione nel momento esecutivo dell'accordo". O per avere omesso "completamente di considerare le dichiarazioni rese da alcuni dipendenti della Sensitec e della Printec", dalle quali emerge "la forte ingerenza del Pacenza nelle scelte aziendali concernenti la gestione del personale". O ancora, per avere sostenuto che "le scritte Franco P." non costituiscono "un elemento tale da collegare, in maniera univoca, i dipendenti ivi indicati al personaggio politico in questione". Per non parlare della stoccata al Tribunale della libertà per avere "audacemente" negato "la credibilità soggettiva" di Franco Alfonso Rizzo, "disconoscendo i principi più elementari tracciati dalla giurisprudenza di legittimità, e costantemente ribaditi da decenni, in tema di valutazione della chiamata in correità o in reità, senza preoccuparsi minimamente di spiegare quali motivi abbiano indotto a dubitare dell'attendibilità (...) del dichiarante, con riferimento (...) al suo carattere, alle sue condizioni socio-economiche, alla sua vita anteatta, ad eventuali rapporti di astio e/o inimicizia con l'accusato, ovvero a un possibile interesse in capo al Rizzo - si badi, indagato reo confesso - ad accusare il Pacenza". Chi ha ragione: il pubblico ministero Cozzolino oppure Pacenza e il Tribunale della libertà?

Interessante, per inquadrare la situazione, è il contenuto di una telefonata che Pacenza riceve dopo il rilascio, e che i magistrati registrano. Uno scambio di battute dello scorso 4 settembre nel quale una signora non meglio precisata dice: "Considerato l'impianto, abbiamo capito che non parlavi di chissà che cosa, per fortuna... Sennò avrebbero buttato le chiavi...". Anche per questa ragione, grande importanza ha l'intercettazione ambientale del dialogo in carcere tra Franco Pacenza ed Ennio Morrone. Un nastro ancora pieno di misteri, vista la scoperta di una quarta, non identificata voce, oltre a quelle dei due politici e della guardia ufficialmente presenti. Ma già esplosivo per i contenuti noti a 'L'espresso': dagli insulti al pm Cozzolino ai contatti tra il deputato dell'Udeur e il procuratore capo Serafini. In altre parole, la conferma che qualcosa non va, a Cosenza e in Calabria. Lo stesso segnale che viene da un'ispezione al Tribunale di Catanzaro, disposta dal ministero della Giustizia, che tocca anche protagonisti del palazzo di giustizia cosentino. Un documento dove colpisce la fitta rete di legami e parentele. A partire proprio da Ennio Morrone, padre di quella Manuela che è giudice alla Procura di Cosenza. La quale è sposata con Stefano Dodaro, capo della Squadra mobile nella stessa città. Il quale è vicino al pm Vincenzo Luberto (a cui, secondo gli ispettori, passa informative che non gli spetterebbero). Il quale, riferisce il pm Eugenio Facciolla, è "in stretti rapporti" (anche per essere stato alunno della madre) con Mario Spagnuolo, ex pm di Cosenza oggi capo coordinamento della Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro. Il quale è vicino all'avvocato Sergio Calabrese (cognato di sua moglie, dice Facciolla). Il quale ha difeso in passato Ennio Morrone. E via di questo passo, in un corto circuito tra legali e giudici, poliziotti e politici, dove i ruoli si mischiano, la trasparenza svanisce e la giustizia arranca.

Benissimo fa Franco Pacenza, dice sottovoce qualche magistrato calabrese, a proclamare la sua innocenza. Comprensibile è che, una volta libero, abbia brindato alla fine di un incubo. Ora però, aggiungono, "l'incubo deve finire anche per noi".